L’attesa in stazione delle famiglie siriane

Arrivati interi nuclei familiari: «Se non scappavamo ci uccidevano». Donne e bambini soccorsi dal 118


di Alessandro Bandinelli


BOLZANO. Ore 10.34. Sul binario 2 arriva il treno per Monaco di Baviera. Poliziotti e carabinieri sono schierati lungo tutta la banchina e ripetono ai profughi che non si sale senza visto. Pochi istanti dopo le porte si richiudono sotto gli occhi dei tanti quasi in lacrime che vedono sfumare il loro sogno di andare avanti.

I volontari li convincono a non stare lì fermi sul binario ma a radunarsi intorno alle sale di primo soccorso dell'ormai famoso binario 1.

Abdurahman ha cinquant'anni, occhi verdi e brillanti su una faccia bruciata dal sole, i suoi capelli scarmigliati e la barba incolta raccontano di un viaggio che sembra non avere mai termine. Quattro anni fa è fuggito con tutta la sua famiglia da Aleppo, in Siria, oggi teatro della più potente e spietata avanzata del sedicente Stato Islamico. Seduti a terra con lui, amici e parenti bevono acqua, mangiano un frutto o un panino al tonno. Sono sfiniti e circospetti, anche se qui hanno trovato l'assistenza dei volontari che corrono da una parte all'altra per cercare di rendere sopportabile la sosta. Sì la sosta, perché qui nessuno vuole restare, come dice chiaramente il cognato di Abdurahman. Vogliono andare in Germania, «Dove c'è lavoro».

A Lampedusa hanno avuto qualche problema perché non volevano farsi “fotosegnalare”, cioè schedare dai registri italiani, per non rischiare di essere respinti in Italia qualora avessero raggiunto la loro destinazione in Germania. Arrivano gli uomini del 118 e corrono in una delle stanze dove ci sono le donne e i bambini. Una bimba, una piccola di qualche mese, ha occhi di un colore per cui non esistono parole. Omaya, una delle ragazze volontarie che parla arabo, dice che le hanno dato il nome di una pietra preziosa. La neonata non sta bene, è disidratata e non vuole mangiare, i primi soccorsi riescono a farle bere dell'acqua, ma vorrebbero portarla in ospedale per evitare complicazioni. Sua madre però non vuole, la speranza è sempre quella di riuscire a partire da un momento all'altro. Intanto con l'aiuto dei volontari le madri cercano tra i vestiti donati qualcosa che vada bene ai bambini, ce ne sono cinque o sei sotto i 6 anni e altri di 13, 10, 8 anni, senza calcolare i bambini dei profughi del Sudan, che sono altrettanti. Ieri mattina ne sono scesi una sessantina, alcuni sono spariti, altri sono qui tra il binario e queste due stanzette che dormono sulle sedie o a terra, mentre i bambini giocano. C'è perfino un ragazzo dal lontano Bangladesh che parla sia inglese che arabo, anche lui è venuto con i barconi da Bengasi, in Libia. Spesso gli uomini per parlare delle guerra imitano il suono dei Kalasnikov o il rumore sordo dei bombardamenti aerei, e con le mani le onde d'urto e il caldo delle fiamme che si propaga per chilometri. Abdurahman, che in Siria era commerciante di vestiti, dice: «Nella mia città, Aleppo, se non vai via significa che sei un ribelle e quindi non importa al governo di Assad se muori sotto le bombe con tutta la tua famiglia». Hanno visto morire tanta gente e poi hanno deciso di fuggire in Libia, ma anche lì la situazione è precipitata. Sono arrivati in Italia dopo un viaggio di tre giorni, tra le onde alte. Ogni tentativo di mangiare era inutile perché tra l'odore, la paura e il mare mosso, non si riusciva a tenere niente nello stomaco. Ora vogliono solo andare via e nel frattempo scrutano sonnolenti i binari di questa stazione in mezzo alle Alpi.













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