L’intuizione di Degasperi Bolzano, la casa “giusta” per i profughi istriani 

L’esodo. In città arrivarono 2,500 esuli. In maggioranza erano professionisti e funzionari


Paolo Campostrini


Bolzano.Alla stazione di Bologna non sono neppure potuti scendere. A Bolzano, invece, sono stati accolti a braccia aperte. Il treno con i profughi giuliano-dalmati era stato fatto accelerare appena avvistata la collina di San Luca, allora, con gli operai delle fabbriche e le sezioni del Pci mobilitate per far allontanare quei fuggiaschi, scampati alle foibe e caricati a forza sulle navi da Tito per avviare una delle tante pulizie etniche seguite alla fine della guerra e "riordinare" i confini. Lì, in Emilia, li consideravano fascisti. C'era la guerra fredda e le ferite di quella calda appena conclusa. A Bolzano no: erano visti solo come italiani. E che italiani. Lo spiega Giorgio Mezzalira: «Era stato lo stesso Degasperi a volerli qui. Tutta gente colta, spesso bilingue. C’era bisogno di qualificare la presenza italiana a Bolzano». E di riequilibrare, nel mentre, la componente operaia. Storico, docente, ricercatore, Mezzalira ha a lungo studiato le vicende dell'emigrazione, ancora negli anni Trenta, e poi dell'esodo delle genti giuliano-dalmate dopo la guerra.

Perché, spiega ancora Mezzalira, e questo è un elemento di ricostruzione storica spesso sottaciuto, gli istriani, i triestini, gli abitanti di Pola, erano giunti in Alto Adige già prima del '45, sollecitati a farlo proprio in virtù della volontà dell'allora regime fascista di rimpinguare le schiere dei professionisti, degli impiegati di alto livello, dei commercianti di lingua italiana presenti a Bolzano. Ecco dove nasce la “qualità” di una migrazione.

E di una colonia divenuta poi componente viva del tessuto sociale e culturale urbano. Una minoranza nella minoranza che ha dato, ad esempio, due sindaci alla città: Salghetti e Benussi. Ma il cui arrivo, soprattutto dopo la fine della guerra e l'occupazione da parte delle truppe comuniste titine di Istria, Trieste e Dalmazia, luoghi di antica presenza prima veneziana e poi italiana, si spiega con l'essere, Alto Adige e la Venezia Giulia, due confini. Con destini contrapposti ma le cui popolazioni ad est sembravano alla giovane Repubblica italiana le più adatte per essere accolte nel confine nord.

Quanti sono stati quei profughi in arrivo a Bolzano?

I numeri sono incerti. Si basano su registrazioni di chi voleva registrarsi. Un calcolo relativo può essere fatto sulle schede compilate da Alfredo Negri, segretario dell'ufficio della Venezia Giulia e Dalmazia qui. Diciamo intorno alle 2500 persone.

Che clima hanno trovato?

Buono.

Rispetto a Bologna o all'Emilia allora "rossa"?

Buonissimo.

E come si spiega?

Innanzitutto con la volontà di Alcide Degasperi di, come ha scritto lui stesso “rafforzare la componente italiana dell'Alto Adige”. E di farlo, questo era il disegno, con genti particolarmente qualificate da far giungere in luoghi complicati come il nostro confine nord.

E per quale ragione?

Si trattava di persone istruite, non solo professionisti, ma soprattutto ceto impiegatizio qualificato, commercianti. Ma, e questo era molto chiaro a Degasperi, già sudditi, prima del 1918 dell'impero austroungarico, dunque abituate al confronto multiculturale e multietnico. Magari spesso in grado di comprendere il tedesco.

Questo contava?

Soprattutto a livello di relazione con i sudtirolesi. Già allora, nel primo dopoguerra, la Svp chiedeva insistentemente a Degasperi di accrescere il livello di bilinguismo con cui operare nell’amministrazione. In questo senso l’arrivo di centinaia o migliaia di cittadini italiani in grado di muoversi con un certo tratto in un contesto multietnico era importante. E chi meglio dei triestini o dei dalmati?

Tutti benestanti e tutti accolti bene?

Beh, non tutti. E soprattutto, in molti non sono finiti subito bene. Ci sono stati anni di disagi. Tanti di loro furono ospitati nella caserma Guella, a Laives; alcuni in tende. Altri in baracche di fortuna. Insomma, erano comunque profughi. Molti invece trovarono l'appoggio di tanti corregionali.

Lei ha studiato a lungo anche questo primo esodo dal confine est. Più che esodo, lei parla di immigrazione, no?

È così. Si tratta di una prima ondata di provenienza giuliano-dalmata, non certo delle dimensioni della seconda, che porta a Bolzano persone da subito inerire nel tessuto lavorativo.

Di chi si trattava?

Impiegati qualificati, abituati a lavorare nella pubblica amministrazione, prefetti, funzionari, addetti al commercio. In questa fase, parliamo degli anni Trenta e Quaranta, è il regime fascista a vedere in loro genti in grado, come poi immaginò anche Degasperi, di aumentare la qualità di una presenza. E poi, certo, la diffusa conoscenza del tedesco e l’abitudine a vivere ed operare in un contesto, quello del confine est, vagamente assimilabile a quello altoatesino.

Cosa accadde a quella prima migrazione triestino-dalmata?

Si inserirono molto bene. Ma la questione interessante è che questo primo gruppo di arrivi negli anni del fascismo, costituì una sorta di testa di ponte per il ben più drammatico esodo successivo alla fine della guerra.

Quel primo nucleo di giuliani, insomma, contribuì al buon esito dell'accoglienza dei bolzanini?

Sicuramente. C'erano contatti, frequentazioni. E poi, insomma, erano italiani. Lo erano a tutto tondo.

Quindi, l'arrivo dei profughi qui avvenne in un clima particolare: li si vedeva quasi come fratelli nella comunità italiana?

Di più. Erano italiani con una indiscussa patente di italianità. Che avevano scelto di esserlo e per questo ne avevano subite di tutti i colori. Erano funzionali ad un disegno. Oltretutto con un retroterra, il confine, l'impero, il multiculturalismo, che ne faceva persone in grado di fondersi meglio qui.

Ma per anni, quell'esodo, come pure le foibe sono state sottaciute, quasi messe da parte...

C'erano altri equilibri qui e in Europa.

Le stesse vicende dei profughi sono state strumentalizzate a destra come a sinistra. Fino a quando?

Fino al momento in cui le istituzioni repubblicane hanno deciso che era il momento di rispettare quella memoria. Di valorizzarla. Ma anche, di porla dentro un contesto di riconoscimento reciproco, tra italiani e slavi e tra destra e sinistra nel Paese.

Ci sono stati ulteriori progressi, no?

Molti. La cerimonia per ricordare a Trieste l’incendio della casa del popolo e del giornale slavo da parte delle squadre fasciste. E poi la visita congiunta di Mattarella e di Pahor, il presidente italiano e quello sloveno a Basovizza, alla foiba. Mano nella mano: quella è stata un'immagine straordinaria.

Come dire: ognuno sta riconoscendo le sue colpe.

Ma anche sceglie di avviare da adesso un cammino insieme. Altra grande speranza e un ulteriore segno la decisione di Gorizia e Nova Gorica, le città divise dal confine, di candidarsi a capitale della cultura. E poi la commissione di studi storici italo-slovena che nel '93 ha provato a sciogliere i tanti nodi. E anche il grande contributo che gli istriano-dalmati hanno dato ad una terra difficile come la nostra.















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