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L’operaio deluso con il cuore in fabbrica: in pensione dopo 43 anni di lavoro in Zona industriale

 «Tutto è cambiato. Una volta c’era il Pci, adesso la Lega, Grillo e CasaPound»


di Luca Fregona


BOLZANO. La Zona industriale pulsa nelle vene e nel sangue di Ignazio Vitello, 61 anni, di cui 43 vissuti in fabbrica. La scorsa settimana, ha timbrato il suo ultimo cartellino all’Iveco. Ha festeggiato la pensione con una “pizzata” insieme agli amici e ai compagni all’Alumix, il ristorante a due passi dallo stabilimento. Neanche il giorno dell’addio è riuscito a staccarsi di dosso l’aria umida della “Zona”. Ha visto cambiare la classe operaia, Ignazio Vitello. I tempi gloriosi delle tute blu e il declino: la globalizzazione, la delocalizzazione, la robotizzazione... «Quando ho cominciato in Iveco eravamo tremila operai, adesso (parla ancora al presente) siamo in 500. E l’orizzonte è un cielo nero».

Questa storia ha un indirizzo: via Volta 6, stabilimento Iveco. E una data: 1966. «Avevo 10 anni, arrivai a Bolzano in treno con mia madre e i fratelli più piccoli. Mio padre Salvatore e le mie sorelle più grandi erano già qui da qualche anno. Fu un viaggio drammatico, erano i giorni dell’alluvione. Ci mettemmo un secolo». Mamma, papà e 10 figli, da Racalmuto, provincia di Agrigento, Sicilia. Il paese di Leonardo Sciascia, delle miniere di sale, delle zolfare e dei zolfatari. «L’impatto con Bolzano è stato durissimo. Ci sentivamo degli alieni. Tutto era diverso. Ero terrorizzato dalla scuola, dalle maestre, dai compagni. Ma oggi ringrazio mio padre di averci portato via. Lì non c’era futuro per noi». Il padre dopo 28 anni di miniera in Sicilia, e alcuni anni nelle miniere del Belgio, è in pensione. Nelle zolfare ha imparato a riconoscere il valore dei minerali: ne riempie valige dalla Sicilia, per venderli ad appassionati e collezionisti. Con gli anni apre due negozi, il primo in via Druso, il secondo (che molti ancora ricordano) nella vecchia via Ospedale, dove oggi c’è la Kolping. Le sorelle più grandi trovano lavoro ai magazzini della frutta ai Piani. A 15 anni, Ignazio inizia a fare l’apprendista. A 18 è operaio edile. A 19 si innamora di Loretta, lei rimane incinta e si sposano. A 20 - siamo nel 1976 - entra per la prima volta all’Iveco. Come pittore di una ditta appaltatrice. «Non conoscevo la Zona industriale. Non c’ero mai stato. Ma il primo impatto potrei paragonarlo a un colpo di fulmine. Tutto mi piaceva: le persone, la fabbrica, il lavoro, l’idea di entrare a fare parte di una classe sociale che teneva in piedi il Paese. Ne ero orgoglioso». Sono anni duri nelle fabbriche, ma anche di forte coesione sociale e solidarietà. Si lotta per avere più diritti e una paga migliore. La “Zona” è una città di seimila tute blu. Il Pci detta legge. «Non c’era da discutere, tutti gli operai erano comunisti ed alcuni di loro erano vere leggende. Il primo giorno, arrivo alle 5 di mattina, vedo un cordone davanti alla portineria. C’erano i falò, i cartelli, le bandiere rosse. Era un picchetto. Un muro invalicabile. Una barricata. Non c’erano santi: di lì non si passava».

Ignazio Vitello è un uomo tutto d’un pezzo, solido come un pezzo di granito, ma con una sua dolcezza. E a questo punto della storia (così come quando racconta dei figli o della moglie), con infinita tenerezza, gli occhi si velano.

«Ma io - prosegue -..., un ragazzino, un pivello, capivo quello che stavano facendo. Ero consapevole di cosa stava succedendo. Ero cosciente del loro sacrificio. Di quello che rischiavano. Li ammiravo. E in modo del tutto naturale mi sono unito loro».

In quegli anni gli operai avevano una visione “alta” del loro ruolo e dei loro diritti. Erano disposti a perdere dei giorni di paga, (e si guadagnava poco), per affermare un principio. «Per una battaglia che non era solo nostra, ma di una classe intera, e per quelli che sarebbero venuti dopo di noi». Vitello lavora in Iveco per 5 anni da esterno. Poi, nel 1981 viene assunto. «Il 5 ottobre scorso ho fatto i 35 anni.Posso dire con orgoglio che non c’è un camion, che sia uscito senza un pezzo montato dal sottoscritto». Inizia al “Reparto Tubi” (dove resterà per 29 anni), insegnando il mestiere a generazioni di tute blu, facendosi molto amare dai compagni,ma sempre rifiutando promozioni e favori da parte dell’azienda. «Appena entrato - racconta -, mi hanno subito affiancato ad un operaio più anziano. Verso gli anziani il rispetto era assoluto, la loro parola era verbo. Eravamo un blocco di cemento. Uniti. Si proteggevano quelli meno bravi, meno capaci, perché tutti dovevano aver lo stesso rispetto, la stessa paga, e le stesse opportunità». La lotta sindacale era ancora molto dura, ma i rapporti con il “padrone” erano buoni. «Se c’era un problema, i nostri rappresentanti se ne facevano carico. La direzione si informava e interveniva. Insomma era un capitalismo intelligente. Capiva che l’operaio era una persona, che senza gli operai l’azienda non la fai». All’epoca l’Iveco costruisce prevalentemente mezzi civili e per la protezione civile (come il famoso camion sei ruote Overland), e solo qualche veicolo non corazzato per il settore militare. «Certo, non era tutto rose e fiori. Il lavoro era massacrante, le condizioni a volte da vergognarsi per quanto riguarda la tutela della salute e dell’ambiente. I bagni erano delle latrine dove i capi potevano controllarti per vedere se facevi i tuoi bisogni o leggevi il giornale. Ma noi operai ci sentivamo parte di qualcosa di grande, di importante, e non solo uno strumento come un bullone o una fresa. Questo conta nella stima che hai di te». In quegli anni l’Iveco andava bene, assumeva a tutto spiano e dava certezze. Sapevi che il 27 lo stipendio arrivava in busta. Magari prendevi qualcosa di meno rispetto ad altre fabbriche, ma ti sentivi al sicuro. «E questo è un valore per gente come noi, che vede nel lavoro il mezzo per far campare la famiglia e dare un futuro ai figli». Alla metà degli anni Ottanta, l’Iveco, che fa parte del gruppo Fiat, decide di procedere ad una radicale ristrutturazione. «Dove c’erano i torni arrivarono i robot. Dove lavoravamo in dieci, adesso ne bastava uno».

Il "sogno d'acciaio" di Bruno Falck a Bolzano Un capitalista duro ma con una visione sociale: un libro racconta la storia dell’uomo che ha fondato e guidato le Acciaierie per cinquant’anni

Vitello dal 1986 al 1988 colleziona un anno di cassa integrazione. «Quando sono rientrato era tutto cambiato. Quello è stato un punto di svolta fondamentale: l’operaio non era più importante come prima, ora a contare erano le macchine. Sono arrivato ad odiare i robot: hanno tolto il lavoro a migliaia di persone. L’ho visto con i miei occhi. Ne sono testimone». L’Iveco non sostituisce più gli operai che vanno in pensione. Le tute blu diminuiscono rapidamente. Intorno, gli altri “monumenti” della siderurgia e della grande industria (Speedline, Viberti, Alumix) vengono abbattuti o ridimensionati drasticamente. «Vedi l’Acciaierie, che una volta erano la “capitale” della Zona, e una delle capitali industriali d’Italia. Adesso contano poche centinaia di dipendenti e hanno perso il loro ruolo storico». Gli anni Novanta demoliscono senza pietà il mito della classe operaia, dell’aristocrazia operaia. Segnano la fine dell’egemonia del Pci nelle fabbriche. «Personalmente nel 1989 ho vissuto come un trauma la svolta della Bolognina di Occhetto (l’ultimo segretario del Pci, ndr), con la nascita del Pds. È stata una frattura dolorosa: da quel momento l’ex Pci si disinteressa degli operai. Probabilmente non contavamo più in termini di voti. Ci hanno lasciati soli in balia dei grandi cambiamenti della fine del Novecento». La globalizzazione, la delocalizzazione della produzione, l’informatizzazione, la tecnologia che elimina il lavoro umano. «Siamo stati travolti, vedevamo sulla nostra pelle gli effetti: fabbriche che chiudevano, posti di lavoro irrimediabilmente persi, cassa integrazione a raffica. Basta vedere cosa è successo alla Zona: in pochi anni è stata praticamente smantellata».

I Novanta segnano anche la definitiva conversione dello stabilimento verso la produzione di mezzi militari iniziata nel 1985 con la nuova denominazione “Iveco Defence Vehicle”: autoblindo, carroarmati, veicoli corazzati da combattimento. «Sono sincero: tra di noi non c’è stato nessun dibattito di tipo etico. Gli unici a licenziarsi per motivi morali sono stati alcuni operai mossi da convinzioni religiose. Non politiche». I tempi sono cambiati. C’è il terrore di perdere il posto di lavoro. Gli anni Settanta del “tutti per uno” sono finiti. «Vedi, l’operaio è quella persona che pensa solo a lavorare e a portare a casa lo stipendio. E se ha paura di perderlo, lo stipendio, lavora ancora più duro. Io stesso vivevo questa contraddizione. Sono di sinistra, pacifista, e mi trovavo a fabbricare armi. Da una parte non mi piaceva, ma dall’altra sapevo che non avevo scelta, che se la fabbrica voleva vivere, non c’erano altre soluzioni. E così lavoravo a testa bassa, come meglio potevo. Con tutto l’impegno di cui ero capace. Tutti noi siamo entrati in fabbrica per migliorare la nostra vita. E questo a un operaio resta in testa fino all’ultimo giorno di lavoro».

Vitello, che non aveva mia preso una tessera di partito o sindacale, si iscrive a Rifondazione («una reazione di rabbia verso il Pci-Pds che mia aveva deluso), e per due mandati entra nella Rsu come delegato sindacale. «Ma poi mi sono tolto perché volevo avere la libertà di dire nelle assemblee sempre quello che pensavo, e ho capito che per essere liberi non devi avere nessun tipo di laccio». Il concetto di “classe” si sta sfaldando come neve al sole. Pensioni, articolo 18, ritmi di lavoro: le “battaglie per i diritti” collezionano (quasi) solo sconfitte. Un giorno Ignazio scopre che gli operai “non sono più di sinistra”. Dopo la svolta della “Bolognina”, il secondo tradimento vissuto dalle tute blu è quello della riforma delle pensioni del governo Dini (1995), votata dal Pds. «I 35 anni di anzianità sono iniziati a diventare 35, 36, 37. Poi è arrivata la riforma Fornero (2011, ndr), voluta dal Pd, e gli anni sono diventati 43. Il nostro lavoro ti logora a livello fisico. Come fai a dire a un operaio che ha iniziato a lavorare a 15 anni, che si alza la mattina all’alba per fare i turni, che fa le notti, che sta inchiodato ad una catena di montaggio per 35 anni, che ne deve aspettare altri otto? Quello non ti crede più. E così è successo».

La classe operaia oggi vota Grillo e Lega. I movimenti anti-sistema. «Di sinistra siamo rimasti solo noi della vecchia guardia, che ormai siamo tutti in pensione. All’Iveco abbiamo dei giovani che sono militanti di CasaPound. CA-SA-POUND? Rendo l’idea? Per me suona come una bestemmia. Ancora 15 anni fa era inimmaginabile. Siamo cambiati nel dna. Oggi vince la pancia. Siamo sempre incazzati. Ce l’abbiamo con gli immigrati. Ti dicono: “Ma come? Io mi spacco la schiena e mi mandano in pensione dopo 43 anni, ma trovano i soldi per dare a QUESTI la casa gratis...”. È dura anche per me trovare una risposta».

In fabbrica è cambiato anche il clima tra gli operai e i quadri. «Io lo chiamo l’effetto Marchionne. In Iveco i miei compagni mi dicono che “ragiono da vecchio”. Ma io ho visto come è cambiato l’atteggiamento dei dirigenti nei nostro confronti. L’arroganza ha preso il posto delle buone maniere. Per loro siamo tornati ad essere dei bulloni. Ha presente il film di Sordi, “Il marchese del Grillo?: “Io so io e tu non sei un cazzo!”. È esattamente così. Noi non siamo un cazzo. Ci dividono. Lusingano i leccapiedi, umiliano quelli che non reggono il passo, i più lenti, i meno capaci. E noi ci siamo cascati. Chi va in cassa integrazione si sente una nullità, uno zero, chi resta a lavorare un semidio. Se i capi ti danno incarichi di “prestigio” sali sull’altare. Se ti mollano lavori di “routine”, pensi di non valere niente. Siamo tornati indietro. Come diceva Marx? Ah sì, il lavoro ridotto a merce».

Ma se chiedi a Ignazio Vitello qual è il ricordo più brutto in 40 anni di fabbrica e impegno politico e sindacale, lui non ha dubbi: il G8 di Genova.

«Siamo arrivati con la Fiom il giorno dopo la morte di Giuliani. Eravamo operai, scout, giovani e anziani. Gente pacifica che voleva dimostrare contro la globalizzazione che ci stava portando via il lavoro. La polizia ci ha chiuso in un strada, ci ha caricati e sparato addosso i lacrimogeni. Ho preso mia moglie per un braccio, ho avuto paura di perderla e non trovarla più. Ci siamo chiusi in un giroscale. Entrava il gas dei fumogeni, la gente ci dava acqua e limoni per pulire gli occhi. Quando la situazione si è calmata la polizia ci ha fatto uscire. A mani alzate. E a mani alzate, come fossimo delinquenti, come fossimo nel Cile di Pinochet, ci ha scortati al pullman. L’umiliazione di quelle mani alzate, non la scorderò mai».

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