l'intervista

«La scelta non è vivere o morire. Ma andare avanti senza dolore» 

Il referendum sull’eutanasia. Il direttore delle Cure palliative: «La legge 38 del 2010 offre una possibilità in più per alleviare  la sofferenza. E da noi è così. Ma in molte realtà la norma è disattesa»


Paolo Campostrini


BOLZANO. C’è un luogo, sospeso tra speranza e paura, che ci coglie sempre impreparati. Ed è il dolore. Quello fisico, che a volte non lascia scampo, che si ascolta e si spera che se ne vada o si ha il terrore che resti per sempre.

Ecco, è quel luogo che si dovrebbe aver presente quando si parla di eutanasia, suicidio assistito, insomma il perimetro in mezzo al quale si svolge il dibattito sul referendum sul fine vita in corso oggi. «In tanti si pensa che ci siano solo due opzioni: o vivere bene o staccare la spina. Non è così. O meglio, rischia di ridursi a questo quando ci si chiede solo cosa fare per la malattia e non cosa fare per la persona».

Massimo Bernardo è il responsabile del servizio di Cure palliative al San Maurizio. Lui, quel luogo, lo conosce. Ci cammina in mezzo da anni giorno e notte. Guarda il dolore ma vede anche la speranza. E si confronta con la vita ma sopratutto con la morte. E ha una convinzione, che è questa: «La stragrande maggioranza delle persone che ha a che fare con le malattie croniche, col dolore insopportabile e senza fine non sceglierebbe mai di morire se avesse la certezza che le sue sofferenze potessero essere alleviate al punto da consentir loro di mantenere relazioni e dignità».

Dunque che cosa pensa del referendum?

Che può aprire un dibattito finalmente articolato. Ma ho paura che non accada.

E perché ?

Perché il Parlamento ed il Governo difficilmente entreranno con serietà su questi temi così complessi e per la ragione che anche il confronto in corso pone l’accento solo sulla libertà o meno di chiudere la propria vita e non sulle tante opzioni intermedie.

Cosa intende?

Non si può ridurre la questione a sole due strade: o sto bene o è meglio farla finita. La legge, la 38 del 2010, dà a tutti il diritto alle Palliative. Cioè offre la prospettiva reale di una possibilità in più. Non solo la morte, il suicidio assistito in caso di sofferenza insopportabile ma di veder alleviate queste stesse sofferenze. E ormai in modo molto significativo.

Questa possibilità è diffusa?

Ancora no. Ci sono ambiti ospedalieri in cui questa opzione è in campo da anni, come da noi, ma in molte realtà la legge è disattesa. E questo non va. È su questo che la politica dovrebbe darsi da fare. Ma non lo fa. Perché qui la questione è concreta e non ideologica.

Quando dice: pensare non solo alla malattia ma alla persona come si traduce nel concreto?

Il malato deve avere la certezza di avere vicino chi lo accompagna nel percorso. I famigliari che possono confortare e continuare a dare un senso alla sua vita e il medico. Che oggi ha innumerevoli strumenti per alleviare il dolore, renderlo sopportabile ma soprattutto dare ancora contenuti ad una esistenza minacciata dalla cronicità della malattia e dunque del dolore.

Come si pongono nel mondo scientifico le Cure palliative?

Dovrebbero essere parte integrante di ogni percorso medico. Spesso lo sono a volte non ancora. Ma questo non toglie che tutti ormai, noi sanitari, dovremmo procedere verso un approccio olistico della medicina. Dove la cura specifica viene sempre affiancata da uno sguardo sul paziente, sulla sua dignità. Sulla possibilità, oggi in campo, di non mirare solo alla cura della malattia ma all’alleviamento del dolore provocato. Soprattutto in caso di malattie croniche.

Per questo sostiene che, con questa opzione, tanti malati non penserebbero al fine vita?

È così. Per la mia esperienza più del 90%. Non esistono solo i percorsi terapeutici ma ci sono altri obiettivi. Bisogni alti. Che riguardano il senso della vita.

Il suo pensiero sembra trovare una connessione tra morale religiosa e etica laica sul piano del rapporto vita-morte. In qualche modo tenuto in piedi dalle attuali conoscenze scientifiche, non esistenti in passato.

Se si vuole è così. Anche se ritengo che in questi casi non si tratti di morale laica o religiosa ma più semplicemente di dovere del medico. Quando c’è un’opzione per alleviare il dolore e preservare così la vita, questa va messa in campo.

Ma poi la morte arriva. E allora?

C’è un’ altra legge, quella del testamento biologico. C’è la possibilità di dichiarare che, in caso di sofferenze inaudite e senza speranza, di essere accompagnati, dopo avere percorso le altre opzione allevianti, alla sedazione palliativa. Quel momento arriva, il medico sa che la morte è a un passo, ma ci si può addentrare senza perdere la dignità. Ma in pochi sottoscrivono questo testamento.

E dunque che dire ancora su questo tema referendario in campo?

Che non c’è vero dibattito. Che sia la politica che le istituzioni si fissano su due uniche opzioni: vita piena o morte. Pur dentro un panorama legislativo confuso e un diritto ancora monco che è quello appunto alle Cure palliative. Se si entrasse dentro questo mondo, fatto di sanitari, di conoscenze, penso che oggi si ragionerebbe sul senso e sul valore della vita in modo più attento.

 













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