Ligabue a Bolzano: «Le mie canzoni per portare un po' di speranza»

Conto alla rovescia per il concerto che Luciano Ligabue terrà il 14 dicembre a Bolzano


Fabio Zamboni


BOLZANO. Conto alla rovescia per il concerto che Luciano Ligabue terrà il 14 dicembre a Bolzano, dentro un Palaonda che si annuncia tutto esaurito. Il rocker emiliano ritorna quassù a 11 anni dalla precedente apparizione bolzanina, anche se in mezzo ci sono state le trionfali tappe trentine dei tour 2002 e 2006. Lo abbiamo intervistato, chiedendogli innanzi tutto se conserva qualche ricordo delle sue precedenti apparizioni dolomitiche. Magari addirittura di quel 10 novembre 1991 dentro il piccolo palasport di Bolzano da tremila posti, allora persino troppo grande per un artista ancora emergente... «Non ho una memoria prodigiosa - dice -, ma un ricordo preciso ce l'ho: la visita alla cantina sociale di San Michele Appiano dove ho scoperto il vino Sankt Valentin. Il fatto che una cantina sociale potesse lavorare a quel livello di qualità mi colpì. E anche la generosità con cui mi omaggiarono di qualche bottiglia...».
Questo concerto e questo tour invernale arrivano alla fine di un anno semplicemente straordinario: a parte hit parade e stadi pieni, nel 2010 Ligabue ha compiuto 50 anni, ha sfornato un nuovo album d'inediti, ha incassato due premi cinematografici (il Vittorio De Sica e il Truffaut, a Giffoni), è stato protagonista del docu-film «Niente paura» sulle e con le sue canzoni, è stato il soggetto passivo ma entusiasta di «Sette notti con Liga» un libro scritto da una sua fan, ha ispirato l'Aterballetto per uno spettacolo di danza intitolato «Certe notti». Insomma, un anno eccezionale. Che cosa non dimenticherà, soprattutto, di questo 2010 che sta ormai per terminare?
Effettivamente è stato ed è un anno speciale. Devo dire che molte di queste cose straordinarie non sono dipese da me, nel senso che io ero soggetto passivo di tante di queste iniziative. Uno dei ricordi più belli resterà proprio il libro «Sette notti con Liga», anche per via di una incredibile coincidenza: il regista di «Niente paura» chiese di entrare in contatto con alcuni nostri fans, noi lo abbiamo accontentato e nel materiale inviato da alcuni fanclub c'erano anche delle pagine firmate Chimena Palmieri. Che sono diventate il libro «Sette notti con Liga». Al di là di certe cose speciali che mi hanno ovviamente lusingato, non c'è nulla che riesca a distrarmi dalla cosa che mi piace di più: ritrovare il contatto diretto col pubblico, nei concerti. Rimettermi in gioco in prima persona, essere protagonista attivo, non passivo.
Se a questo 2010 non è mancato nulla, che cosa manca invece alla carriera di Luciano Ligabue, che del resto in questo nuovo album canta una canzone intitolata «Il meglio deve ancora venire»?
Non è una promessa: è un po' una provocazione. Mi piaceva dire quella cosa lì a 50 anni. E dirla proprio in chiusura dell'album, dandole un peso maggiore. Ma in realtà, nel testo lo faccio dire ad una "lei": «Mi devi dire che il meglio deve ancora venire» quindi in realtà mi affido a qualcun altro che mi possa stimolare. In generale siamo tutti consapevoli del momento di difficoltà in cui viviamo: sociale, civile e culturale. E però resta il fatto che pensare ad un futuro nero ti fa vivere un presente nero e impossibile. Nessun futuro è prevedibile, sarà quel che sarà e dunque l'invito ad un pizzico d'ottimismo lo faccio anche durante i concerti. Meglio permettersi il lusso di restare delusi che rovinarsi comunque il presente.
E questi 50 anni, come uomo e come rocker? Tempo di primi bilanci, di svolte, di ripartenze come direbbe un vero mediano?
A cinquant'anni non so se sono i primi bilanci o se sono gli ultimi. È una cifra che non mi piace per niente, ma si sono create delle condizioni speciali per sopportarla. Io non ho nessun problema a dire che sono un privilegiato: per il mio compleanno mi è arrivata una valanga di affetto da chi mi sta vicino ma anche dai miei fans. E anche un regalo clamoroso: un gruppo di duecento fans ha fatto colletta per regalarmi una Epiphone del '65, che è una bellissima chitarra. Ho «letto» questo regalo come un invito a non mollare mai.
Comunque, i 50 anni impongono nuove responsabilità: com'è il rapporto umano e artistico con un figlio batterista di 11 anni?
In realtà, Lenny ora è più chitarrista che batterista. Ed è lanciatissimo, perché ha molto talento, ha più orecchio di me: diventerà un ottimo musicista, ma non so neanche se augurarglielo. Responsabilità di genitore? Ognuno nel pensare di fare del suo meglio ripropone più o meno i modelli dei propri genitori. Io spero di continuare a ricordarmi che bisogna leggere i tempi per come sono, di aiutarlo a vivere cambiamenti sempre più veloci, e sempre con l'obiettivo di spingerlo verso la ricerca della sua felicità.
A proposito di responsabilità: nel nuovo album c'è più pubblico e meno privato, rispetto al passato. Un po' d'impegno, insomma. È l'età o i tempi che cambiano?
Entrambe le cose, direi. L'età mi fa dire che se i fans aspettano una parola in più, una speranza, è chiaro che io sono costretto a sforzarmi di avere la capacità di leggere i tempi. D'altro canto anche il privato ti fa aprire una finestra sul pubblico: "Quando mi vieni a prendere", canzone sull'impossibilità di preservare l'innocenza, mi ha portato a collegare un brutto episodio della mia vita ad un orribile episodio di cronaca nera, accaduto in Belgio. L'arte è preziosa, può aiutare. Mi piace moltissimo il concetto, lanciato da Jodorowski, che «la vera arte è l'arte che fa guarire». Io vivo in un mondo rock ma sono lontano dalla dimensione nichilista legata a tanta parte del rock. E allora mi ostino a raccontare quello che vedo ma anche ad incoraggiare, a dire a ciascuno di prendersi le proprie responsabilità. Con una parola di speranza, oggi indispensabile. Mi piace pensare di essere, con una parola poco artistica, «utile».
Nell'album che dà il titolo al tour c'è una canzone dedicata a Francesco Guccini. In cui si dice: «tu che conosci un po' i colleghi ed è per questo che vivi sull'Appennino...». Non sarà mica un riferimento a Vasco e alla rivalità che divide i vostri rispettivi fans?
Quella canzone vuole essere un po' la mia "Avvelenata" (canzone-invettiva che Gucini cantò nel '76, ndr), per raccontare una parte del nostro ambiente. In cui ho visto tradimenti, furbizie, prevaricazioni, come ovunque. Non uso rispondere pubblicamente agli insulti, e allora mi sono sfogato in una canzone. Ma in questo caso Vasco non c'entra proprio.
Su tante fotografie di Ligabue, risalta un vistoso anello con una scritta di cui spicca solo la parola "Rien"...
C'è scritto "Rien jamais fini pour toujours", niente mai è finito per sempre: la frase non mi rappresenta del tutto, direi, ma l'anello me l'hanno regalato e mi piace molto...
Alla fine di questo anno speciale e anche alla fine di questa intervista, un progetto per l'anno che arriva...
Vorrei parlare di cose concrete, che so che faremo davvero. E allora l'unica cosa che posso anticipare è che nel 2011 affronteremo anche l'avventura bellissima di un tour teatrale. Da fine febbraio, primi di marzo, un tour acustico con una band allargata, suonando e cantando seduti, cercando di dare e di ricevere emozioni diverse da quelle dei palasport.

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