Il caso

Mantiene tutta la famiglia da anni, ma la cittadinanza va all’ex marito 

Una donna iraniana non riesce a ottenere il riconoscimento perché i suoi redditi risultano intestati all’ex coniuge. Il suo sfogo: «Ci siamo separati, ho ridotto le ore di lavoro per seguire i figli. Così la mia domanda è stata rigettata»


Sara Martinello


BOLZANO. È arrivata in Italia nel 2009. Ha sempre lavorato senza sosta, senza mai tirarsi indietro davanti alla fatica, pagando le tasse. Solo una volta ha detto «no», quando aveva bisogno della domenica di riposo per poter seguire i tre figli almeno quel giorno. Uno, due, tre lavori insieme. Pochi giorni fa, la doccia gelata: a lei niente cittadinanza, al suo ex marito sì. «Ma sono sempre stata io a portare a casa i soldi, lui non ha mai fatto niente, e ora si vanta di questo suo “risultato” con gli amici, dice che faticare e lavorare tanto come ho fatto io non serve a nulla», racconta M. (chiede l’ anonimato per tutelare i figli).

Questa storia fa emergere almeno due questioni. La prima: il lavoro è percepito come pilastro di quella dignità umana che dovrebbe dare la cittadinanza. La seconda viene dalle parole della prima figlia di M. Una volta raggiunta la maggiore età, ha dovuto avviare in autonomia le pratiche per l’acquisizione della cittadinanza italiana, cioè rifare l’iter burocratico e versare le somme necessarie. «Ormai la cittadinanza quasi non mi interessa più, è diventata fonte di tristezza. Per non parlare della difficoltà di trovare un nuovo appartamento in affitto insieme a mio marito: siamo entrambi lavoratori onesti e finché con i proprietari degli alloggi parlo al telefono non ci sono problemi, poi quando scoprono che ho un nome “straniero” e che non ho la cittadinanza mi chiudono la porta in faccia. Se l’Italia non mi vuole, perché dovrei continuare questa battaglia?».

Torniamo indietro nel tempo. È il 2009 quando M. e i suoi primi due figli arrivano qui al seguito del marito, costretto a lasciare l’Iran per motivi politici. Di conseguenza anche moglie e figli hanno lo status di rifugiati. Negli anni M. svolge i lavori più disparati: fa la lavapiatti, stira, fa le pulizie all’ospedale o nelle mense, tutto mentre i suoi stessi figli – l’ultima è nata a Bolzano pochi anni fa – hanno bisogno di essere seguiti. Per poter avere la domenica libera si vede costretta a lasciare il lavoro in ospedale. Da due anni lavora come collaboratrice domestica e babysitter. «In tutti questi anni sono sempre stata io a mantenere la famiglia. Mio marito ha lavoricchiato, si è dato da fare pochissimo. Non sa nemmeno l’italiano, dopo tanti anni».

Il primo settembre del 2015 M. presenta la richiesta per l’acquisizione della cittadinanza italiana, per sé, per i tre figli allora tutti minorenni e per il marito. La pratica prende il via nel 2016. Il 25 ottobre del 2017 la primogenita, che in Italia ha studiato e cominciato a lavorare, fa domanda per sé. Paga di nuovo i 200 euro per il tribunale e la marca da bollo. «A gennaio dovrò rifare tutto daccapo – spiega M. – e pagare, perché mi hanno detto che non ho lavorato abbastanza, avendo dovuto ridurre gli orari nei tre anni in cui nessuno poteva tenere la mia bambina più piccola. Il punto è che il mio ex marito ha ottenuto la cittadinanza perché i miei redditi risultavano intestati a lui, che riceve pure un sussidio provinciale».

La motivazione scritta su carta intestata del ministero dell’Interno è che il reddito è inferiore ai parametri di legge: «Non si ravvisa la coincidenza tra l’interesse pubblico e quello della richiedente alla concessione della cittadinanza italiana». Sono dodici anni che M. e i figli aspettano i documenti italiani. Negli ultimi tempi, intanto, in Iran la situazione è precipitata. M. si rabbuia. «I miei genitori stanno male, per andarli a trovare serve che abbiamo la cittadinanza. L’ultima volta che ci siamo sentiti, mio padre mi ha detto: “Prima di morire voglio vederti”».













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