«Mia figlia Marcella morta trent’anni fa Ma è sempre con me»

Era il 3 gennaio del 1985 quando la studentessa di 15 anni fu uccisa nella sua casa di via Visitazione da Marco Bergamo


di Maurizia Mazzotta


BOLZANO

Sono trascorsi 30 anni dal pomeriggio del 3 gennaio 1985 quando, rientrando a casa, Maurizia Mazzotta Spitaler trovò sua figlia Marcella Casagrande, 15 anni, senza vita in un lago di sangue. Un dolore atroce. La studentessa delle Pascoli abitava con la mamma in via Visitazione. Marco Bergamo fu condannato sette anni dopo all'ergastolo per aver ucciso lei ed altre quattro donne. Oggi Marcella avrebbe 45 anni, i suoi affetti, una famiglia, magari dei figli. Il "delitto Casagrande", così lo ricordano le cronache del 1985. Un caso tra i più sconvolgenti della storia bolzanina rimasto per anni irrisolto. In seguito l’allora pm Guido Rispoli, ricostruì quel che era successo. Bergamo aveva conosciuto Marcella in un negozio di foto. Si erano scambiati consigli. Poi quel pomeriggio le aveva suonato alla porta di casa. Ma fino ad allora sospetti, interrogativi. Vite che cambiano, rapporti che si incrinano. Trent'anni. Ma per la mamma sembra ieri. Di più: oggi. Maurizia Mazzotta Spitaler racconta i pensieri di chi Marcella l'ha sempre avuta accanto, giorno dopo giorno senza un minuto di assenza. "Le psicologhe mi dicono che i morti vanno seppelliti" scrive. Ma lei non ha seppellito nessuno. Come si dice? Elaborare il lutto... Ma per Maurizia "elaborare" è stato semplicemente non perdersi mai di vista. L ei e Marcella. (v.f.)

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di Maurizia Mazzotta

Ecco, ci siamo. Trent’anni, sono passati trent’anni dal 3 gennaio 1985. Faceva freddo, un freddo cane. Non ho mai più sentito un freddo così. Mi chiedo, ma come, trent’anni? Marcella è così presente, sempre, ogni giorno, normale. Una scema di psicologa una volta mi ha detto imperiosamente che i morti vanno seppelliti. Che cosa ne sa, di cosa vuol dire seppellire una figlia adolescente. Io sì che lo so. Vuol dire seguire una bara bianca in una macchina nera, che va così lentamente che quasi la vorresti spingere, dai sbrigati che non ce la faccio più. Vuol dire avere le orecchie che fischiano e sentire dietro di sé solo il rumore dei passi sulla ghiaia. Vuol dire sentire il tuo medico che dal tuo fianco ti chiede se va tutto bene, ce la fai, reggi ancora? Vuol dire non avere il coraggio di guardare negli occhi tuo padre e tua madre, per non esplodere. Vuol dire ripetere il mantra, lei non è lì, lei non è lì, all’infinito. Un anestetico. Vuol dire scervellarsi per proteggere i tuoi figli dalle parole incaute. Vuol dire avere paura degli altri, di chiunque altro, avere paura del rumore dei passi anche in mezzo alla città. Vuol dire passare anni e anni e anni dove ogni qualvolta salta fuori il nome del delinquente (un complimento) i giornalisti ti chiamano e ti chiedono cosa pensa? come si sente? cosa prova? E tu lì a pensare non devo dire parolacce, non devo arrabbiarmi, non devo piangere, non devo essere pietosa. Devo essere coraggiosa e forte così tutti dicono oh come sei coraggiosa e forte. E dentro sei polpa di granchio. Ma è quello che devi fare, da un ricorso all’altro, da una richiesta all’altra di libertà.

Come si sente? Ma come vuoi che mi senta se me lo trovo davanti? Maurizia, non ti incazzare, dì che hai fiducia nella giustizia e bla bla bla. E poi i preti, ah i preti. Il disegno divino… ma di cosa sta parlando? Il perdono… cosa? il perdono? Ma, scusi perdoni lei che non sa cos’è un figlio. Io sta cosa non la capisco. E gli amici, come hai fatto, ma come fai. Cosa come ho fatto, a fare che? A vivere? Eh, vivo.

Ho ben pensato a fare altro, ma solo un attimo, sul balcone al sesto piano. Ma se non avessi avuto una ragione fortissima per cambiare idea non potreste dirmi quanto sono coraggiosa e forte. Balle. Non lo sono, finiamola qui. Cerco ragioni di vita e le ho. Questa vita però l’ho consumata in lacrime, avrei bisogno di una nuova. Magari mi faccio buddista e così ci credo. Cosa ne sa la psicologa e cosa ne sanno i giornalisti. E non dico più parolacce. Forse.

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