IL CONVEGNO

Migranti? «Piccoli numeri collocati in piccoli centri» 

Ingrid Kofler (Eurac): sbagliato concentrarli soltanto nelle grandi città. «È fondamentale il ruolo dei Comuni, delle reti sociali e del volontariato» 


di Paolo Campostrini


BOLZANO. «C’è un modo per aggiungere emergenza ad emergenza quando si parla di migranti, ed è quello di accogliere un gran numero di persone concentrandole in una grande città. Penso a Bolzano. Se invece si fa il contrario, distribuendo piccoli numeri in piccoli centri è più facile individuare la via d’uscita...». Ingrid Kofler ha appena ascoltato, all’Eurac, le esperienze messe a confronto tra Alto Adige e Valle d’Aosta al convegno in corso sull’immigrazione alpina. E cosa ne ha tratto? «Che anche in territori che hanno a che fare con le minoranze, sia difficile vedere le nuove minoranze, cioè gli stranieri e i profughi come una risorsa e non una minaccia».

Ingrid Kofler è sociologa e ricercatrice senior all’Eurac Research ed ha curato, con Andrea Membretti e Pier Paolo Viazzo un libro che farà da base ai prossimi studi sociologici in materia “Per forza o per scelta”. Raccogliendo dati sul campo. E in particolare su due situazioni-simbolo di un nostro possibile percorso di accoglienza , in due comuni periferici, Malles e Ortisei. Come pure hanno agito Johanna Mitterhofer e Verena Wisthaler analizzando cifre e dati sul fenomeno visto con un’ottica altoatesina (47mila gli stranieri presenti nel 2016, oltre il 9% della popolazione). Ingrid Kofler ha a sua volta rilevato come un rapporto stretto e collaborativo tra piccoli municipi e reti di accoglienza, soprattutto i volontari, sia alla fine la chiave per una “buona pratica” e possa rendere superabili gli ostacoli all’integrazione altrimenti grandemente ansiogeni per le comunità.

Qual è la chiave per un buon inizio?

«A Malles e a Ortisei, per fare un esempio pratico, è il ruolo decisivo del centro di accoglienza e dell’amministrazione comunale: in entrambi i casi vi è stata una stretta collaborazione».

Ma cosa occorre?

«Piccoli numeri in piccoli centri. E dunque facilità di rapporto tra enti e popolazione. Le dimensioni ridotte in cui “tutti conoscono tutti” permettono anche ai richiedenti asilo di costruirsi un proprio capitale sociale».

Parla di rapporto tra persone più che tra istituzioni dunque?

«Sono le relazioni che si creano a livello interpersonale tra la popolazione e gli immigrati quelle che permettono di aumentare le possibilità di una inclusione di successo, ma non basta».

Perché?

«Occorre la presenza dei sindaci e degli assessori al sociale. E se si tratta di piccoli municipi ecco che il contatto avviene nel quotidiano sui singoli temi o emergenze. E viene risolto prima sul piano pratico e dei contatti diretti. Per questo è fondamentale il ruolo dei Comuni».

Sono cioè le reti sociali la soluzione?

«E i volontari. In Alto Adige sono numerosi ma vanno preparati. Si tratta di un fenomeno nuovo quello che vanno ad affrontare e occorre sapere come muoversi al di là della buona volontà. Ecco perché alle buone pratiche che ormai in tante località vengono messe in campo servono corsi di preparazione».

E le altre pratiche necessarie?

«Corsi di lingua, assolutamente indispensabili e coinvolgimento del mondo del lavoro per capire come e quando offrire possibilità di integrazione positiva e non forzata. E' chiaro che in piccole realtà tutti questi passaggi sono più semplici, più mediati ambientalmente».

Perché, se la chiave è l’accoglienza diffusa, come dice, in Alto Adige siamo così in ritardo con gli Sprar?

«Una scelta politica immagino. Si è trattato di definire le competenze tra Stato e Provincia. E poi un ritardo nel reale coinvolgimento delle amministrazioni comunali. È evidente che se si impongono quote all’inizio non concordate ai singoli comuni c’è il sindaco che si oppone e dice: perché a me sì e agli altri no?»

E adesso?

«C’è stato un cambiamento di rotta. Se la Provincia decide di negare possibili finanziamenti a chi rifiuta le proprie quote, ecco che la questione diventa più gestibile. Anche per la ragione che sono proprio le quote diffuse l’unica soluzione possibile. Il contrario crea tensioni sociali e complicazioni nella gestione dei centri.

Ha studiato altre esperienze positive?

«In alcuni paesi del Piemonte, come a Pettinengo, si è deciso di estendere anche al resto della comunità i servizi messi in opera per i migranti. Insomma, le strade sono molte se si ha chiaro che l’obiettivo deve essere l’integrazione e non solo la semplice accoglienza. Mettere in relazione la persona migrante alla persona cittadino».

 













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