Moro tenta l’invernale del Nanga Parbat

La spedizione preparata assieme alla moglie altoatesina


di Marco Marangoni


BOLZANO. La spedizione è di quelle da brivido. Di quelle in cui l’ambiente che ti circonda è tutto bianco. Dove le parole più comuni sono, valanghe, seracchi, scariche di ghiaccio, bufere di neve, temperature anche fino a -55 gradi, aria rarefatta. Dove il non accusare fatica, la mentalità del passo dopo passo, vince su tutto e ti potrebbe far entrare nella storia dell’alpinismo.

Eh si, perché Simone Moro, il più forte, temerario e completo alpinista italiano dei giorni nostri, è partito a Santo Stefano per l’Himalaya per una spedizione al limite dell’impossibile: scalare il Nanga Parbat in invernale. Un traguardo mai raggiunto in precedenza da nessuno.

Una missione preparata a tavolino anche nella sua abitazione di via Rio Molino a Bolzano in compagnia della moglie Barbara Zwerger, quotata atleta nell’arrampicata sportiva, e al figlioletto Jonas che il 4 gennaio prossimo festeggerà i 4 anni. Simone Moro, nato 46 anni fa Bergamo, possiamo considerarlo un bolzanino d’adozione, un po’ come il suo vicino di casa Giorgio Cagnotto.

Simone è partito assieme al suo compagno di cordata, il 35enne germanico di Monaco di Baviera, David Göttler ed al freerider bergamasco Emilio Previtali che documenterà la ‘Nanga Parbat Winter Expedition 2014’ nel ruolo di story teller. Moro non andrà sulle tracce dell’indimenticato alpinista gardenese Karl Unterkircher che il 15 luglio 2008 morì precipitando in un crepaccio lungo la parete Rakhiot. Simone cercherà di raggiungere gli 8.125 metri della vetta della nona montagna più alta della terra, soprannominata «killer mountain» (la montagna che uccide), dal versante Ruphal e la via da percorrere sarà la “Schell” aperta nel 1975.

«Andrò a scalare la montagna più grande, non più alta, della terra per dislivello. Va considerata la differenza tra il campo base e la vetta. La parete è lunga 4.515 metri mentre, se prendiamo in considerazione l’Everest, il dislivello dal versante cinese è di 3.548 e di soli 2.448 da quello nepalese – ci ha raccontato Simone poco prima di partire -. Voglio sottolineare che il Nanga Parbat è una montagna che parla tanto tedesco, in particolare tirolese. È stata scalata da tanti alpinisti austriaci e anche altoatesini come del resto sono un po’ anch’io. Non dimentichiamoci che il primo a raggiungere la vetta fu Hermann Buhl di Innsbruck nel luglio del 1953» .

Perché ha deciso di compiere quest’ascesa così pericolosa ?

«A questa domanda rispondo con una domanda. Perché l’uomo s’innamora? Per amore si vanno tante cose irrazionali però si vive un grande entusiasmo. Non lo faccio per il desiderio di protagonismo, per i soldi o per la fama. Questa è una cosa irrinunciabile. Semplicemente perché è il mio sogno. Non voglio essere felice solo il sabato e la domenica o a Ferragosto quando c’è bel tempo. Per essere un uomo felice, ma anche un papà ed un marito felice l’alpinismo è il mezzo per la mia esistenza. Voglio ispirare altra gente in vari ambiti professionali a credere nelle esplorazioni».

Cosa porterà nel suo zaino?

«Il buonsenso e tutto il necessario per sopravvivere. Buonsenso significa saper rinunciare quando ci sono rischi. Il tutto in un contesto in cui abbandonare una sfida no va intenso come un fallimento personali ma come una grande virtù. Non voglio fare il kamikaze. Mi considero il campione del mondo della rinuncia. Dico sempre che il mio alpinismo, quello che ho fatto in 20 anni passando per 50 spedizioni, è il mio passaporto. Se calcolo che per ogni spedizione servono tre mesi, negli ultimi vent’anni ne ho passati dieci in Himalaya e sono ancora vivo».

Si ritiene fortunato?

«Non voglio parlare di fortuna, ma forse ho rinunciato più degli altri. Lo stesso Reinhold Messner mi confessò di aver fallito il 50 per cento delle volte, lui per me è un esempio come Cassin che mi diceva che i grandi alpinisti muoiono nel proprio letto».

Moro si sofferma, poi, sull’attrezzatura «Sicuramente diverse tende, il cui numero scenderà campo dopo campo. Salirò con zaini leggeri, massimo 25 chilogrammi. Cercherò di sfruttare la tecnologia, porterò con me un computer portatile per parlare e vedere la mia famiglia e un telefono satellitare che servirà, se dovesse accadermi qualcosa, per dire addio al mondo perché a quelle quote in inverno nessuno ti può venire a prendere. Rompersi una gamba, se non riesci a trascinarti a valle, può essere fatale».

La scheda.

Simone Moro è nato a Bergamo il 27 ottobre 1967. È papà di Martina e Jonas, quest’ultimo avuto dalla moglie bolzanina Barbara Zwerger. Oltre all’alpinismo, Simone pratica anche dry tooling, arrampicata sportiva, paracadutismo ed è pilota di elicotteri. Il 19 maggio 2013, insieme a Maurizio Folini ed Armin Senoner, ha stabilito sul Teng Kang Poche il record del più alto (circa 7000 metri) recupero in parete con un elicottero. È laureato in scienze motorie con 110 e lode. A 13 anni inizia ad arrampicare.

Tra il 1990 ed il 1991 è sottotenente degli Alpini. Dal 1992 al 1996 è allenatore della nazionale italiana di arrampicata. Nel 1992 inizia la sua carriera di alpinista in Himalaya e Karakorum. È stato il primo a raggiungere la vetta, in inverno, di tre ottomila, lo Shisha Pangma nel 2005 (assieme al polacco Piotr Morawski), il Makalu nel 2009 (assieme al kazako Denis Urubko) e il Gasherbrum II nel 2011.

Quest’ultima impresa è storica perché Moro ha eguagliato il primato dei polacchi Wielicki e Kukuczka per aver scalato tre montagne in inverno nel Karakorum. Simone ha raggiunto 7 delle 14 vette oltre gli 8000 metri e quattro volte è salito agli 8.848 metri del “tetto del mondo”, l’Everest (2000, 2002, 2006 e 2010). Moro è medaglia d’oro al valor civile per aver salvato nel 2001 sul Lhotse l’alpinista inglese Tom Moores nel 2001.

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