Nel garage la storia delle Case Lancia

Marco Ribetto ha raccolto centinaia di foto dei ragazzi di allora


di Antonella Mattioli


BOLZANO. «Non si vive di ricordi, ma ricordare fa bene». È per questo che Marco Ribetto, 69 anni, ha trasformato il garage in un piccolo museo fotografico. Ha tappezzato le pareti di foto e quando ha occupato l’ultimo pezzetto di muro, ha deciso che avrebbe riempito di scatti in bianco e nero anche l’interno della porta basculante. Sono alcune centinaia di foto, custodite per anni in vecchie scatole di scarpe che oggi raccontano la storia dei “Ragazzi delle case Lancia”. Inutile dire che Ribetto era uno di loro.

Oggi abita in una bella palazzina in fondo a via Resia, ma il suo cuore è rimasto in quei quattro condomini costruiti nel 1952, all’incrocio tra via Resia e via Ortles (che allora ancora non c’era, ndr), per le famiglie degli operai. Tanto che solo pochi giorni fa, come aveva fatto nel 2002, per festeggiare i 50 anni dall’inaugurazione, ha radunato i ragazzi d’allora in pizzeria: all’appello hanno risposto un’ottantina di persone.

Un salto nel passato. Quando la porta basculante si abbassa, appare un mondo ormai scomparso. I primi scatti sono ricordi di famiglia: suo padre Paolo, sua madre Adalgisa e suo fratello Walter. Originari di Alessandria erano arrivati a Bolzano per lavorare allo stabilimento Lancia. «Prima sistemazione: il villaggio in zona industriale, a due passi dalla fabbrica. In tutto una trentina di baracche dove, per forza di cose, le famiglie, tutte giovani e con tanti figli, condividevano ogni cosa. Il gabinetto era in comune e così pure il lavabo dove si lavavano i piatti e la biancheria. Non avevamo niente ma c’era una solidarietà che il benessere ha cancellato. Accanto alle baracche le famiglie, la stragrande maggioranza arrivava dal Veneto, si erano fatte un piccolo orto e allevavano galline. Mio padre aveva una capra, così non dovevano comprare il latte per me che ero un bambino».

Poi nel 1952, nelle campagne di via Resia, la Lancia aveva costruito per i suoi dipendenti quattro palazzoni: due con alloggi in affitto, gli altri a riscatto. Lì si trasferirono 92 famiglie che significava 500-600 persone: un piccolo quartiere. «La mia famiglia arrivava dalle baracche del Villaggio Lancia, altre da soffitte e scantinati sparsi in giro per la città».

L’appartamento in via Resia era il simbolo dell’emancipazione sociale.

L’attico. «A noi era stato assegnato un alloggio al quarto piano: una meraviglia. Per la prima volta avevamo un bagno e una cucina per noi. Qualcuno non sapendo come usare la vasca, ci aveva piantato un piccolo orto».

I ragazzi, tantissimi perché le famiglie allora erano numerose, vivevano in cortile. Nelle foto che tappezzano il garage di Ribetto i ricordi di pomeriggi indimenticabili passati nelle due grandi sabbiere a sfidarsi nel Giro d’Italia “corso” con le biglie, a giocare a pallone. «Non c’erano né televisione né computer: bisognava lavorare con la fantasia. È così che i bastoni diventavano fioretti e quando c’erano le Olimpiadi noi ragazzi della Case Lancia organizzamo le gare di corsa, lancio del disco, salto in lungo e in alto. In quel grande cortile si sono saldate amicizie e sono nati grandi amori. Ricordo ancora il giorno in cui siamo andati la prima volta al cinema: siamo partiti in quindici alla volta dell’Astra, dove oggi in via Palermo c’è la farmacia Perini, per andare a vedere Bufalo Bill, un’avventura fantastica». Le famiglie delle Case Lancia, e non solo loro per la verità, non andavano mai in vacanza: il mondo iniziava e finiva in quel quadrilatero delimitato dai condomini. Ma in via Resia, dove oggi c’è il negozio di arredi Manzini, per i più piccoli l’estate c’era la colonia dell’ Onarma, messa in piedi da don Gaetano. Un aiuto prezioso per le donne che allora cominciavano a lavorare fuori casa.

Nel garage di Ribetto c’è poi la sezione che ricorda le famiglie passate per le Case Lancia. Come i Giovanazzi: erano in tredici, padre, madre e undici figli. «Venivano da Renon, ma erano troppi e nella nuova casa non c’era posto per tutti. Risultato: una parte della famiglia era rimasta sull’altopiano. Ironia della sorte quando erano a Bolzano erano i crucchi, sul Renon i Walsche».

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