«Noi divisi a metà, fieri di essere italiani e stranieri» 

La seconda generazione. Parlano i nuovi bolzanini, giovani arrivati con le famiglie da ogni angolo del pianeta: «Il mondo è solo uno»  Il vescovo Muser: «Oggi i muri sono più che nel 1989, abbattiamoli»


Sara Martinello


bolzano. Chiamateli pure “stranieri”, perché loro saranno in grado di ribaltare il significato ostile e di portarlo nel campo della fierezza di essere cittadini del mondo. Di aver avuto la forza di fare propria una cultura diversa da quella dei posti dove sono nati. I nuovi italiani, le famiglie venute da paesi lontani, le storie che a Bolzano si sono intrecciate e che qui hanno dato vita a una rete di rapporti e di amicizie, ieri erano al Talvera, alla Festa dei popoli. Tra ieri e oggi, due giorni di canti, danze e pietanze tipiche, con un centinaio di persone impegnate nell’organizzazione dell’evento e diverse associazioni – Volontarius, Un ponte per l’integrazione, Oew, ma anche Admo, Plogging, Streetwork – a dare il loro contributo. Ieri i racconti di bambini e giovanissimi, ma anche gli interventi di Papa Dame Diop e del vescovo Ivo Muser, davanti a un piazzale pieno di famiglie e di amici. Si gioca a pallone, si mangia il pollo alle olive marocchino e il pampushky ucraino (un dolce fatto con le patate). «La Pentecoste – così il vescovo Ivo Muser nel suo intervento, ieri pomeriggio – è una festa dell’incontro. Ci dà lo spunto per concentrarci su ciò che ci accomuna e per abbattere i muri. Muri che oggi sono più di quanti fossero quando cadde il muro di Berlino».

Ricongiungimenti, nuove culture, riscatto. È un’umanità che desidera ancora, quella riunita alla Festa dei popoli. Robert Tazou ha vent’anni, di giorno fa il receptionist con una cooperativa Acli che dà un letto a chi ne ha bisogno, e la sera frequenta un corso per diventare elettrotecnico. È arrivato qui a 16 anni. Dal Togo, da solo, prima in camion e poi in barca. Due anni in Libia. Parla il kabye, l’ewe, il francese, l’inglese e ora anche l’italiano. «Se ne avrò la possibilità, sì, farò la richiesta di cittadinanza. È un desiderio piuttosto comune tra i miei conoscenti. Perché tornare in Togo sarebbe bello, ma ho ancora vent’anni. È ancora tutto da scrivere».

Jian Ariel Pueblo ha cominciato a provare una certa fierezza, quando qualcuno lo chiama “straniero”. «Sono fiero di aver vissuto due ambienti culturali totalmente diversi, di aver imparato a vivere in un altro mondo, anche se parlare di “mondi” non mi piace. Per me il mondo è uno». Pueblo è nato vicino a Manila, la capitale filippina. È in quinta, l’anno prossimo gli piacerebbe proseguire gli studi a Trento. Ingegneria, spera. Quando nove anni fa ha raggiunto i suoi in Italia, dopo un’infanzia passata nelle Filippine insieme al nonno, parlava il tagalog. Come seconda lingua, l’inglese. «Inizialmente la barriera linguistica mi intimidiva, poi ho cominciato a fare amicizia coi compagni di scuola. Sto valutando la possibilità di chiedere la cittadinanza italiana, ma vorrei mantenere quella filippina, in modo da poter scegliere dove vivere, un giorno».

Intanto, dal palco, una ragazza in un abito bianco con un importante ricamo di perline racconta di venire dal paese dei girasoli. «Cinque anni fa sono arrivata in Italia e ho capito che studiare le lingue sarebbe stata la via migliore per conoscere tradizioni diverse da quelle ucraine, per comunicare, per conoscere». Di qui l’iscrizione al linguistico Carducci. Tetiana Khryk ha impiegato un mese e mezzo per creare l’abito da indossare alla Festa dei popoli. L’anno prossimo la maturità, e poi? «Medicina, forse». Risponde con un sorriso e un brillio negli occhi. Sa che sarà difficile. I suoi genitori sono arrivati vent’anni fa. «Come tutti. Poi ci hanno fatto venire qui, me e mio fratello, per darci maggiori opportunità di realizzazione nello studio e nella vita». E gli amici? «Siamo al linguistico – ride –, c’è chi ha origini cubane, chi polacche, chi italiane. La diversità è la nostra ricchezza».

E pensare che dieci, quindici anni fa a scuola la diversità la si cercava di sotterrare, nel tentativo di sfuggire alla discriminazione. «Atti di bullismo ne ho subiti, da ragazzina. Ora qui mi sto bene, il mio futuro lo immagino in Italia. Magari con la possibilità di tornare in Bolivia per le vacanze: l’ultima volta è stata nel 2017». A parlare è Dayana Licona, 19 anni, dieci dei quali passati in un paese dove la situazione economica e politica ha costretto tanti ad andarsene. La cittadinanza, lei e sua madre, la stanno ancora aspettando. «Studio al Levinas. In classe la cittadinanza italiana l’avranno 7 o 8 su 16, ma tutti sappiamo che non essere nati qui non conta niente».

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