L'INTERVISTA don michele tomasi il vescovo  

«Paura dell’altro? Possiamo solo rimanere umani» 

La Diocesi. Il monsignore dal 6 ottobre si insedierà a Treviso È il primo altoatesino chiamato a guidare una diocesi fuori regione Le migrazioni: «Va interrotta la spirale della violenza verbale» 


FRANCESCA GONZATO


Bolzano. Don Michele Tomasi vescovo di Treviso. Il 14 settembre la sua ordinazione a Bressanone, il 6 ottobre l’ingresso nella diocesi trevigiana. L’ordinazione poteva avvenire sia a Bressanone che a Treviso, spiega. Lo abbiamo incontrato nell’ufficio al centro pastorale.

Un bolzanino a Treviso. Papa Francesco ha voluto mescolare le carte?

Nella chiesa italiana è abbastanza abituale che in una diocesi venga nominato un vescovo che proviene da un altro territorio. È una novità per noi altoatesini che un nostro sacerdote venga chiamato come vescovo in un’altra regione.

Ha capito come il Papa è arrivato alla sua nomina?

Continua a essere un mistero per me. Non chiedo, perché non me lo direbbero. E non mi sono ancora abituato all’idea.

In un territorio così piccolo ogni cervello in partenza rappresenta una perdita. Il dispiacere del vescovo Muser il giorno dell’annuncio della sua nomina era palesemente sincero.

La commozione del vescovo mi ha colpito e commosso. Ricopro alcuni ruoli, su cui il vescovo Ivo dovrà fare alcune scelte. Le cose andranno avanti bene. Anzi, è probabile che si attivino risorse che finora non sono state valorizzate per pigrizia. Sono felice di avere fatto parte di questo progetto così bello.

Quale immagine sceglierebbe per la nostra diocesi?

L’unificazione della struttura italiana e sudtirolese, che funziona ottimamente. Lo considero un punto di non ritorno. Evidentemente la separazione degli uffici non significava la separazione delle comunità. La differenza è che ora chi assume un ruolo, ha la responsabilità di tutti, italiani, tedeschi e ladini. La doppia struttura era stata la decisione giusta, tenendo conto di due comunità che stentavano a trovare percorsi comuni. Il tempo ci ha cambiati, era tempo di unificare. Il Sinodo ha permesso alle persone di incontrarsi e stupirsi della bellezza dell’altro gruppo.

La politica in Alto Adige è più arretrata della chiesa. O anche la società? Cosa ne pensa?

È giusto che in una collettività ci sia una difesa di interessi. Spero che ciò che fa la Chiesa incoraggi chi nella società sta provando a fare questi percorsi. Ormai siamo tutti qui, così come siamo, ed è bello.

Lei è vicario episcopale per il clero. Tra i suoi compiti, fare tornare i conti tra il numero delle parrocchie e i sacerdoti in calo. L’affidamento di ruoli ai laici sta funzionando?

Nel complesso sì e sarebbe stata la strada da percorrere anche avendo un parroco per parrocchia. La corresponsabilità dei laici è importante ed è necessario capire quale sia il contributo specifico del parroco, quale la sua funzione sacramentale. Non c’è cosa più importante che confessare e celebrare l’Eucarestia, perché lì noi pensiamo che ci sia Gesù Cristo. In un mondo proiettato sull’interesse, la mia gratuità come sacerdote è stupenda: ciò che faccio di importante non viene da me.

E il ruolo delle donne in questa assunzione di responsabilità dei laici?

Senza le donne, potremmo chiudere. Abbiamo donne ai vertici di gruppi pastorali e in cattedra nello Studio teologico, ma gli spazi sono molto più ampi. La questione dell’ordinazione sacerdotale non è in discussione, ma credo che la Chiesa sarà così ricca da trovare nuove forme di ministerialità.

Sul tema del contrasto alla pedofilia nella chiesa la diocesi di Bolzano è stata molto attiva, prima con il vescovo Golser, ora con Muser. Porterà questo impegno a Treviso?

Primo, le vittime vanno tutelate. Secondo, se vengono commessi crimini, questi vanno trattati come tali. Infine, se c’è qualcuno che deve essere curato, è giusto che lo si curi. Le famiglie devono affidare i propri figli alla chiesa con fiducia. Non so ancora come ciò si tradurrà a Treviso, ma è una responsabilità che ci viene chiesta.

Lei si insedierà in Veneto, la terra che ha inventato lo slogan «paroni a casa nostra». Oggi è «prima gli italiani». Le migrazioni creano paura, ma nel discorso pubblico non c’è solo timore o solidarietà: c’è anche indifferenza verso la sofferenza, a volte ferocia. In quale humus crescono questi sentimenti? È un tema che interroga la Chiesa?

Sì. È responsabilità della comunità cristiana interrompere la spirale di violenza, anche verbale. Se c’è una cosa che la Chiesa conosce, è che la parola è al centro. Cristo è parola. Dobbiamo usare una parola buona, non di violenza. Questo è il compito che ci affida Papa Francesco. Il Veneto è una terra ricca di solidarietà, non voglio credere che quella vena profonda si sia esaurita. Allora sì “prima gli italiani”, perché siamo una popolazione accogliente, che non ha mai fatto mancare nulla a nessuno. Ci sono paure che vanno capite, bisogna comprendere l’identità delle persone e la politica deve mettere in campo le modalità più giuste perché nasca una convivenza, perché ciò che è difficile venga gestito. Ma il senso della vita umana può passare solo attraverso l’umanità. Altrimenti, che uomini siamo? È l’unione del bene che aiuta a sconfiggere il male.

Lei è laureato alla Bocconi. Come la accompagnerà questa parte della sua formazione nel magistero di vescovo?

Ho insegnato per diversi anni dottrina sociale della Chiesa. È una lente che mi consente di guardare al mondo com’è. Gesù ha qualcosa da dirci sempre, anche quando viviamo nel lavoro. Dire che l’economia è tutto, è sbagliato. Dire che l’economia non è nulla, è sbagliato.

A Treviso ogni tema non passerà più attraverso il filtro italiani-sudtirolesi. Le sembrerà strano.

Porterò con me, e sarà prezioso, l’esercizio della traduzione che impariamo in Alto Adige. Non è solo linguistico: sono sicuro di avere veramente capito l’altro?

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