Profughi, il vescovo scuote la chiesa

L’appello di Muser: «I poveri non si fermano, smettiamola di pensare ai muri. Vogliamo condividere o solo difenderci?»


di Francesca Gonzato


BOLZANO. Bolzano nel cuore dell’emergenza profughi, per la sua vicinanza al Brennero. Ma si può parlare di “cuore”, ed è una emergenza? Ne abbiamo parlato con il vescovo Ivo Muser, che sulla accoglienza ha molte cose da dire, anche alla chiesa, che non sta aprendo abbastanza le porte. Nonostante l’appello di papa Francesco e le richieste dei volontari.

Vescovo Muser, Bolzano è uno dei luoghi chiave per la gestione dei profughi. Una sfida troppo grande per una realtà piccola?

«È un tema talmente grande, che nessuno di noi conosce la risposta, figuriamoci se possiamo avere delle risposte facili. Questa è una delle mie preoccupazioni, quando mi avvicino al tema delle migrazioni. Chi dà risposte facili ed egoiste, non dà le risposte giuste. Serve umiltà, di fronte alla complessità. Il primo passo è comprendere che non dobbiamo gestire una emergenza. È una sfida che ci occuperà per molto, molto tempo».

Il Vaticano ha per tradizione una delle migliori reti diplomatiche del mondo, capillare e molto informata. Qual è la vostra previsione?

«Per fortuna abbiamo questa rete mondiale. È importante pensare in modo globale, non essendo una situazione che potrà essere risolta dall’Italia, dalla Germania e neppure dalla sola Europa. Quest’anno sono stato in Etiopia con alcuni collaboratori della Caritas. Lì ho pensato “ecco, è questo che sta succedendo”. In Europa sentiamo dire “dobbiamo fermarli”. Là ho capito che i poveri del mondo non si lasciano più fermare».

I poveri non si fermano.

«A questo dobbiamo dare una risposta, perché ha a che fare con noi, con il nostro stile di vita, sicuramente con i nostri valori. Ci mettiamo spesso nell’atteggiamento “dobbiamo difenderci”, “dobbiamo fermarli”, non so come né dove. A Salorno, al Brennero, a Lampedusa... Non ci porterà da nessuna parte. Quello che serve è un cambio forte di prospettiva, pensare a come vivere questa trasformazione. E visto che non possiamo fermare questa massa di persone, dobbiamo capire come trasformare tutto ciò in una chance. Inserirli bene, cogliere le loro capacità».

L’idea della accoglienza come opportunità non crolla di fronte a numeri sempre più imponenti?

«La prospettiva non è “venite, c’è posto”, ma dico che non possiamo pensare alla nostra terra come a un’isola. Non lo è mai stata, e ora lo è pochissimo, come vediamo. La domanda che deve coinvolgerci è: vogliamo condividere o vogliamo solo difenderci?».

Anche a costo di rinunciare a qualcosa?

«Ma certo. E sarà così. Si dice anche “aiutiamoli a casa loro”. Giusto, ma non basterà. Pensare solo in termini di difesa dagli altri, oltre che non condivisibile, rappresenta un dispendio di energia. Come vescovo non sono tenuto a dare risposte tecniche. Pensando alla dimensione pastorale e religiosa, dico che dobbiamo investire nella nostra identità. Mi chiedono se non ho paura perché arrivano gli “altri” di altre religioni. Non temo le religioni degli altri, mentre a volte mi preoccupa la debolezza della identità religiosa della mia gente. Chi non ha una identità, diventa aggressivo, sogna muri. C’è chi fa certi discorsi “in nome della nostra religione” e poi non viene a messa...».

I volontari di «Binario 1» hanno lanciato un appello disperato alle parrocchie: aprano le porte agli ultimi tra gli ultimi, cioè ai profughi fuori dal circuito ufficiale, sempre più donne e minorenni abbandonati a se stessi.

«Conosco alcune parrocchie che hanno aperto le porte a donne incinte o accompagnate da bambini. Ci sono belle esperienze di integrazione promosse dalle parrocchie».

Ma accade di rado. Eppure papa Francesco ha chiesto ai parroci di accogliere migranti. Gli spazi non mancano.

«È un tema che deve coinvolgerci tutti, tutte le istituzioni devono assumersi le loro responsabilità. È un diritto che ogni persona in difficoltà venga accolto. È un diritto. Parliamo con le parrocchie ed è chiaro che al loro interno ci sono diverse posizioni e paure. Ecco perché dico che tutti vanno accompagnati in questo cambio di mentalità, e quando dico tutti, intendo anche la comunità cattolica. Adesso stiamo parlando dei casi di emergenza, ma ricordiamo che la Caritas sta svolgendo un lavoro eccellente. E la Caritas siamo noi, è la Diocesi».

Siamo impreparati.

«Sì. Qualcosa più che impreparati, se l’atteggiamento di fondo è “non li vogliamo”. L’Italia ha una storia di migrazione. Lo dovremmo sapere bene: si parte quando non ci sono prospettive».

Lei non fa distinzione tra migranti economici e chi fugge da guerre e dittature, potendo aspirare al diritto di asilo.

«Cosa significa essere in pericolo di vita? Non vale anche quando manca ogni prospettiva? Sono distinzioni teoriche».

©RIPRODUZIONE RISERVATA













Altre notizie

Attualità