«Ricominciamo a vivere grazie al lavoro»  

Seab, un gruppo di richiedenti asilo opera come volontari nella cura degli argini «Siamo sopravvissuti all’orrore. A casa non possiamo tornare, non adesso»  


di Francesca Gonzato


BOLZANO. Uno di loro studiava come biologo e intanto lavorava come guida turistica, «ero bravo, mi ero fatto un nome», un altro era muratore, un altro ancora guidava i camion. Questo accadeva nell’altra vita. Adesso sono in una zona di mezzo, «richiedenti asilo», in attesa di una risposta. Di stare fermi tutto il giorno non ne vogliono sapere. Li si incontra sulle passeggiate, con la divisa arancione, impegnati nella pulizia degli argini del Talvera e dell’Isarco. Sono sette i richiedenti asilo che lavorano come volontari affiancati agli operatori della cooperativa Joti. È un progetto voluto dal Comune, che lo ha affidato alla Seab.

Ogni tre mesi i richiedenti asilo si alternano, «ma qualcuno chiede di restare per qualche altra settimana», spiega Michael Rossi, il caposquadra della cooperativa che li segue. In questi giorni i richiedenti asilo al lavoro lungo gli argini sono tutti africani. Abbiamo parlato con Mandiane Yacouba (Senegal), Gibba Gusman (Gambia), Victor Agbonze (Nigeria), Augustine Uden (Nigeria), Ali Maiga (Mali). Affiancano gli operatori della cooperativa per quattro giorni alla settimana, quattro ore ogni giorno.

«Stare nel centro profughi senza fare niente mi manda fuori di testa. Ho lavorato tutta la vita», racconta Gusman.

Guardano il verde delle passeggiate e raccontano di essere passati tutti dalla Libia, prima di arrivare a Bolzano. Quello che accade nei centri libici ormai è stato testimoniato con reportage coraggiosi. «No, non potete capire. Le persone vengono torturate, per costringere le famiglie a inviare i soldi», raccontano, «Abbiamo visto tante persone morire. Caricano i corpi sui furgoni e vanno a buttarli nel deserto».

La loro vita adesso è qui, dicono, «Bolzano è bella». C’è chi proviene da famiglie borghesi, di politici, schierate dalla parte sbagliata, chi appartiene a etnie perseguitate, chi militava in una milizia perdente, questi i loro racconti, cui sono aggrappati per ottenere lo status di rifugiato. «Non c’è più nessuno, li hanno uccisi», oppure, «non so che fine abbia fatto mia madre», oppure «in Gambia sono rimasti i miei tre figli».

Quello che vogliono è restare e lavorare. Sono volontari. «Ogni mese ricevono un buono spesa da 50 euro, è una nostra scelta come cooperativa per fare la differenza tra mettersi a disposizione o restare nel centro di accoglienza», racconta Alessandra Berloffa (presidente della cooperativa Joti). Rossi come caposquadra li promuove: «Sono bravi, puntuali, ci tengono al lavoro». Com’è l’accoglienza? «Qualche commento cattivo contro di loro arriva, ma pochi per fortuna», risponde Rossi. «Un po’ alla volta le persone si stanno abituando a noi. In fondo è una situazione nuova anche per voi bolzanini. Siete grandi lavoratori, vi dà fastidio chi sporca e chi spaccia, chi chiede l’elemosina, lo sappiamo». Il progetto è in crescita, racconta Alessandra Berloffa: «Siamo partiti nel 2017 con un po’ di fatica. I richiedenti asilo partecipavano ai corsi sulla sicurezza e poi non li vedevi più. Adesso c’è un passaparola virtuoso. Arrivano persone motivate. Sono precisi, hanno capito che il lavoro li aiuta anche ad imparare più velocemente la lingua. Questo progetto dà dignità a chi lavora e rende un servizio utile ai cittadini».

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