Sazietà ed abisso intorno all’amore, l’orgoglio di Fois

Lo scrittore sarà dopodomani a Bolzano col suo ultimo romanzo «Nel tempo di mezzo»


di Giovanni Accardo


di Giovanni Accardo

Vincenzo Chironi, protagonista del romanzo di Fois, mette piede per la prima volta in Sardegna - «una zattera in mezzo al Mediterraneo» - nel 1943, l'anno della fame e della malaria. Con sé ha solo un vecchio documento che certifica la sua data di nascita e il suo nome, ma per scoprire chi è lui veramente dovrà intraprendere un viaggio ancora più faticoso di quello affrontato col piroscafo che l'ha condotto fin lì. A Nuoro trova ad attenderlo il nonno, Michele Angelo - maestro del ferro, che gli farà da padre e da complice in parti uguali - e soprattutto sua zia Marianna, che vede nell'inaspettato arrivo del nipote l'opportunità per riscattare un'esistenza puntellata dalla malasorte.

Finalista allo Strega e contemporaneamente nella cinquina del Campiello, i due premi letterari più famosi d’Italia: che effetto fa?

«Di grande orgoglio, ma soprattutto per il fatto che la mia casa editrice ha deciso di eleggermi campione per i tornei Campiello e Strega che sono davvero importanti e impegnativi: potevano scegliere un altro e hanno scelto me, già questa la considero una vittoria notevole».

Per molti anni è stato catalogato come scrittore noir, ma a partire dal 2006, con Memoria del vuoto, ha imboccato la via della narrazione epico-leggendaria: come mai?

«Non è stata una scelta tattica, ma, direi un’evoluzione stilistica. Non sono un noirista o giallista pentito se è quello che vuole sapere. Anzi credo che quella esperienza, alla quale torno spesso, mi sia servita per misurare il polso del rapporto tra autore e lettore».

Il protagonista del nuovo romanzo, Vincenzo Chironi, è un sardo-friulano, che lascia il Friuli, dov’è nato, per conoscere la parte d’identità che gli manca, quella sarda.

«Se gli manca non lo sa, sa solo che un pezzo della sua genetica si è formata in quel territorio. Poi scopre che non sono i territori o le identità, vere o presunte, a risolvere i nostri problemi. Come disse Seneca al suo pupillo Lucilio i problemi ce li portiamo appresso. La fame vorace di affetto di Vincenzo dipende da quello che è stato, quello che sarà gli serve semmai a capire con più ferocia quanto ha perso: ha esattamente la malinconia dolente che volevo che avesse».

Nel tempo di mezzo non è solo una storia individuale, ma attraversa la storia d’Italia, dal referendum del 2 giugno 1946 all’avvento della televisione a colori, nel 1978.

«Due anni cruciali per la storia politica di questo Paese, da una parte la conquista di una democrazia compiuta dopo vent’anni di dittatura; dall’altra lo sfilacciamento di quella democrazia nella stagione di piombo. Uno dei temi portanti di questo tempo di mezzo è stata la presunzione di ricchezza e la perdita della sobrietà, ma senza nostalgia. Piuttosto un ulteriore tentativo di considerare la memoria un atto indispensabile per la maturazione politica e culturale di un territorio. Valore solo apparentemente scontato».

Tema forte del romanzo è quello dei legami familiari e del rapporto tra le generazioni: i padri e figli, i nonni e i nipoti.

«Le famiglie spesso sono territori dove sperimentare la propria attitudine all’esistenza. Vincenzo una famiglia vera e propria la conquista in età adulta. Ciò significa ripercorrere la propria infanzia a trent’anni e prendere coscienza di un tremendo ritardo affettivo. Questo romanzo parla della fame d’amore e di quel particolare sentimento di sazietà che si sente quando si è appagati dal punto di vista affettivo, ma anche dell’abisso che si vive quando tutto ciò viene a mancare».

Altro tema, quello che riporta continuamente a Stirpe, il romanzo precedente, è quello della morte, e del dolore per l’assenza, per chi non c’è più.

«La Morte è il tema dei temi, in qualsiasi letteratura a qualunque latitudine: si scrive per guadagnare l’immortalità».

Ma «Nel tempo di mezzo» è anche un romanzo di profumi e sapori, non solo di paesaggi.

«Sì, mi fa piacere che lei l’abbia notato: ho provato a costruire una scrittura polisensoriale, una scrittura cioè che tenesse conto di tutti i sensi compreso l’olfatto. La scrittura odierna tende a favorire il senso della vista, ma spesso trascura tutti gli altri».

Infine, il destino dell’ultimo discendente dei Chironi, Cristian, viene paragonata a quella dell’apostolo Matteo, in particolare secondo la lettura del Caravaggio. Perché.

«Sono due quadri: “La conversione di San Matteo” e “L’angelo che detta il vangelo a San Matteo” in cui le dita sono fondamentali. Nel primo, Cristo indica col dito puntato l’Apostolo ed egli a sua volta si punta il dito al petto: è un richiamo alla propria responsabilità, perché vivere non è solo un atto biologico, ma anche un atto responsabile; il secondo in cui l’Angelo enumera la stirpe di Abramo tenendo il conto con le dita e Matteo trascrive perché anche la letteratura è responsabilità. Quindi un messaggio riguarda Cristian che deve afferrare il testimone della sua esistenza; l’altro riguarda me che racconto… Spero bene».

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