«Seconda lingua, tanti sforzi ma serve una scelta politica» 

L’ex senatore Francesco Palermo: «La scuola italiana  sta facendo molto in questo campo, però non è sufficiente»



BOLZANO. Francesco Palermo usa sempre lo stesso aggettivo per dare il senso, anche sociale, del dibattito sull’apprendimento del tedesco riesploso in questi giorni dopo la pubblicazione dell’indagine sulla scuola dell’infanzia: "profonda". C’è infatti, per l’unico parlamentare di area riformista che ha lasciato come propria eredità politica un progetto di legge sulla scuola bilingue in Alto Adige, una "profonda" domanda che sale dalle famiglie che chiedono di trovare strade praticabili e sicure di apprendimento; ed è "profonda" l’asimmetria tra mondo tedesco e mondo italiano di fronte a questo scenario. Perché per l’ex senatore, ricercatore all’Eurac, esperto di problemi delle minoranze linguistiche, la questione non «è amministrativa, è solo politica». E va presa, questo non lo dice ma lo fa capire, per le corna.

L’ex sovrintendente Rauzi propone, provocatoriamente, di iscriversi tutti alla scuola tedesca. Poi, chi ha fatto l’indagine dice: questi sono solo numeri. Tra queste due facce della medaglia ne esce una più mediana?

«Direi che la medaglia è unica. La statistica dice quello che deve dire, la signora Rauzi lancia, chiaramente, una provocazione alla politica. Ma in mezzo, in ogni caso, ci sta una realtà ineludibile: c’è una diffusa domanda di apprendimento mentre, a fronte, gli stessi che domandano aiuto notano una mancanza di strumenti adeguati».

Chi difende le sperimentazioni nella scuola e negli asili italiani dice: qui da noi si sono fatti grandi progressi...

«Beh, in parte è vero. Ma ci sono due questioni. La prima è fare qualcosa con gli strumenti normativi che si hanno a disposizione. E in questo caso è corretto, la scuola italiana sta facendo molto. E poi aggiungo, si possono muovere gli strumenti già sul campo...».

Del tipo?

«Lavorare sulla mobilità degli insegnanti nei ruoli all’interno dei due gruppi. Sinergie tra scuola tedesca e italiana. Oppure muoversi intorno alla gestione degli orari e l’intensità delle lezioni. Ma non basta. Ci vorrebbe di più».

E che cosa ancora?

«Quando ho lavorato sulla mia proposta di legge ho pensato ad una cosa: una norma che avesse un forte significato simbolico».

E che dunque si muovesse su quali piani?

«Far comprendere che si possono salvare due principi: quello dell’intangibilità dell’insegnamento come strumento di salvaguardia della minoranza, e questo è quello che incarna la scuola tedesca. Ma poi rendere la scuola italiana capace di adeguare la capacità di competizione del gruppo italiano. Ecco cosa intendo per significato simbolico: una salvaguardia non pregiudica l’altra».

E quali considerazioni si sente di fare di fronte alla domanda che sale dalla società e che spinge, anche, a iscrivere i figli alle scuole dell’altro gruppo?

«Nonostante il molto che si sta facendo nella scuola italiana, e che va riconosciuto, è evidente che esiste un chiaro problema di asimmetria tra i due mondi. Che gli sforzi delle istituzioni pedagogiche italiane non hanno eliminato».

Che tipo di asimmetria?

«La cartina di tornasole del problema in essere è la continua pressione che sale dalle famiglie italiane e la quasi assenza di pressione che, al contrario, si nota in quelle tedesche. Anche se, e questo va chiarito, nella scuola tedesca il dibattito è aperto e acceso. Ma in termini diversi. Quindi va compresa anche la provocazione della ex sovrintendente».

Quando la signora Rauzi ha detto: e allora iscriviamo tutti alle scuole tedesche?

«Si è fatta interprete, usando una forzatura evidente, di una situazione non equilibrata. Di uno scarto nella percezione del tema che riguarda l’effettiva conoscenza dell’altra lingua».

E come se ne esce?

«Ammetto che non sarà facile ma la via è quella di non considerare il tema una questione amministrativa, da risolvere solo con strumenti conseguenti, ma pienamente politica».

Sul filo della sua legge?

«Sì, quello era un inizio».(p.c.)













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