il compleanno

«Sono arrivata fino ai cento anni senza neppure accorgermene»

Livia Zendron, trentina ma bolzanina di adozione, ha da poco festeggiato i 100 anni: un secolo di vita tra guerra, società e tecnologia: «A tenermi viva interesse e curiosità»


Antonella Mattioli


BOLZANO. «Stavo leggendo un articolo, proprio sull’Alto Adige, del professor Paolo Pombeni sul voto utile. Il 25 settembre ci sono le elezioni e non so ancora per chi votare».

A stupire non è l’incertezza sul voto - visto che la condivide con un esercito di elettori italiani - e neppure la voglia di approfondire la tematica, ma l’età della lettrice: 100 anni compiuti da pochi giorni.

Di questi tempi, raggiungere il traguardo del secolo è sempre meno eccezionale, ma lo diventa se chi ci arriva ha ancora l’indipendenza e la curiosità di Livia Zendron, trentina di nascita e bolzanina di adozione.

Un elegante vestito a fiorellini bianchi e gialli su sfondo blu, girocollo di perle, capelli candidi, un bel sorriso in un viso disteso a dispetto dei due mesi passati tra ospedale e clinica: l’abbiamo incontrata nella sua casa di via Visitazione, dove abita da sola, potendo però contare sulla preziosa amicizia di Rosalba Bestoso. Una vicina di casa con cui - tra tante altre cose - condivide da oltre 30 anni la passione per il ricamo.

Signora, lei ha attraversato un secolo: com’è stato questo lungo viaggio?

Posso dire la verità? Non me ne sono neppure accorta. Il tempo è volato via.

Come ha vissuto questi cento anni?

Bene. Sono soddisfatta di quello che la vita mi ha dato e continua a darmi. Perché ho la fortuna di continuare a mantenere l’interesse e la curiosità. Mi tengo informata leggendo il giornale, ascoltando la radio e guardando la televisione. Sono in collegamento con il resto del mondo grazie al telefonino.

Non è tra coloro che detestano le tecnologie?

E perché mai? Bisogna restare al passo con i tempi. Fino ad un paio di anni fa usavo il computer, ma adesso ho tutto nel cellulare. Se voglio chiacchierare con qualcuno telefono, altrimenti per qualcosa di più rapido, mando un WhatsApp o scrivo una e-mail. E poi in internet trovo tutto quello che voglio: dalla ricetta di cucina alla poesia di cui ricordo magari solo l’inizio. Basta mettere in google qualche parola e mi dà il testo integrale. Meglio di così.

Ha sofferto molto durante i due anni di pandemia?

Non direi, perché anche prima della pandemia passavo molto tempo in casa. In realtà, ho avuto più tempo per pensare.

A cosa?

A tutto. Noi spesso abbiamo paura di fermarci a pensare. Preferiamo riempire il tempo di mille cose.

Pensa mai a quello che c’è dopo la vita?

Certo che ci penso. Sono religiosa ma non mi accontento di credere. Ed è per questo che sorgono i dubbi. Appunto. Mi piace leggere, approfondire le sacre scritture. Cerco risposte a delle domande che sono inevitabile, ma spesso non le trovo.

Lei ha l’enorme fortuna di essere ancora indipendente.

Mi sforzo di esserlo. Anche se adesso, dopo due mesi trascorsi tra ospedale e clinica, devo recuperare: è stato un periodo molto difficile, ma ne sono uscita. La prima settimana mi sono fatta portare i pasti a casa; adesso voglio arrangiarmi da sola. So che non potrò tornare come prima, però ce la sto mettendo tutta. E comunque so di poter contare sull’aiuto prezioso della mia amica Rosalba.

Rimpianti, per cose che avrebbe voluto fare e non ha fatto?

Non direi. Solo qualche volta, quando vedo una bella famiglia, penso forse sarebbe stato bello averne una. Ma non è successo e quindi bene così. Alla volte, trovare la persona giusta è semplicemente un caso.

Cosa ha fatto nella sua “prima” vita?

Quello che facevano le ragazze ai miei tempi.

Ovvero?

Si poteva scegliere se diventare maestra di scuola o maestra di posta. Non c’erano tante altre possibilità.

Lei cosa ha scelto?

L’insegnamento: mi sono diplomata all’Istituto Rosmini di Trento, proprio quando è scoppiata la Seconda guerra mondiale. In realtà, ai miei tempi, non era proprio così scontato che le ragazze studiassero. Infatti, quando mio padre si arrabbiava, minacciava di non farmi più studiare. E per me sarebbe stata davvero dura da accettare.

Cosa significava per lei studiare?

Io abitavo a Valda in Valle di Cembra. Studiare significava andare a Trento; uscire dal piccolo paese e cominciare a vedere il mondo. Appena ho potuto, ho viaggiato: serve ad aprire gli occhi e ancora di più ad aprire la mente.

Ha sempre insegnato?

No, ho cominciato a lavorare al comune di Trodena: ero impiegata al servizio anagrafico. È lì che sono venuta in contatto con la difficile realtà delle opzioni ed ho conosciuto il dramma delle divisioni laceranti vissute dalle famiglie altoatesine. Ho collaborato per un periodo anche con l’Ispettorato dell’agricoltura per il calcolo del valore delle proprietà degli optanti. Ad insegnare ho cominciato durante la guerra.

Prima esperienza di insegnamento?

A Termeno. In classe avevo anche bambini sfollati, provenienti da diverse città fuori regione, che erano sotto le bombe. Venivano ospitati da famiglie del posto.

Com’era la scuola sotto il fascismo?

Piena di retorica. Dopo Termeno dove ha insegnato? Alla fine della guerra, sono stata assegnata ad Aica, frazione di Naz Sciaves: insegnavo in una pluriclasse ospitata nel sottotetto di un albergo dismesso. Il freddo mi ha provocato una forma reumatica cronica che non mi ha più abbandonata.

Soddisfazioni dall’insegnamento?

Tante. Oltre che in Alto Adige ho insegnato in Trentino e in terra ladina, a Penia, in fondo alla Val di Fassa. Allora era considerato un posto fuori dal mondo. Lei però ha fatto anche carriera all’interno del mondo della scuola. Mi sono laureata in Pedagogia a Padova e ho iniziato la carriera di direttrice didattica a Monguelfo, in Val Pusteria. Poi Vipiteno, Merano, a Bolzano sono stata direttrice alle Don Bosco e alle Longon. Mi sono anche appassionata alle traduzioni dal tedesco di alcuni saggi pedagogici per la casa editrice “La scuola”.

Si dice che la scuola di una volta preparasse meglio?

Preferisco evitare questi paragoni e non azzardo giudizi, per il semplice fatto che sono cambiati i tempi. Oggi i ragazzi hanno competenze diverse da quelle che erano richieste a noi. Anche perché il mondo nel frattempo è cambiato. Sa cosa mi dispiace?

Cosa?

Mi dispiace che la scuola di lingua italiana altoatesina abbia fatto una brutta figura anche alle ultime prove Invalsi.

Ai ragazzi di oggi che consigli dà?

Ragazzi non rinunciate a studiare. La preparazione e la cultura sono forse le uniche cose che il tempo non riesce a cancellare.

E ai genitori?

Non giustificate sempre i vostri figli; non siate convinti di avere in casa dei geni incompresi dagli insegnanti. Fareste il loro male.

Secondo lei, in Alto Adige, arriverà mai il giorno in cui si faranno le scuole bi o trilingui?

Me lo auguro e credo che sarà inevitabile. Lo chiede sempre più la società che ormai non è più divisa tra italiani e tedeschi, visto che anche in Alto Adige abbiamo immigrati che arrivano da ogni parte del mondo.













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