«Tito entrò a Fiume: le maestre ci diedero bandiere jugoslave» 

Il racconto di Luciano Devescovi, orchestrale della Haydn Nel 1947 la partenza da Fiume con fratelli, genitori e nonna



BOLZANO. «Fino alla settimana prima noi bambini sventolavamo la bandiera italiana. Il 3 maggio del 1945 Tito entrò in città coperto da dieci chili di medaglie, sulla Cadillac nera che gli avevano regalato gli americani. Fino alla settimana prima noi bambini avevamo sventolato la bandiera italiana: quel giorno le maestre ci misero in mano la bandiera jugoslava». Luciano Devescovi frequentava la terza elementare quando le formazioni jugoslave entrarono a Fiume, la sua città. Da allora, per la sua famiglia cambiò tutto, in un lungo viaggio che ieri l’esule ha ripercorso.

I Devescovi abitavano a Fiume, il capoluogo affacciato sull’omonimo golfo. La comunità italiana di Fiume, Pola e Dalmazia era ben nutrita, e da secoli al suo interno si annoveravano diverse personalità di spicco. Uno su tutti, Antonio Grossich, medico dell’ospedale di Fiume che nel 1908 inventò la tintura di iodio. Ma anche Giuseppe Tartini, nato a Pirano a fine Settecento, o la prima donna telegrafista d’Europa.

Fu nel 1947 che la famiglia Devescovi, come tante altre, optò per l’Italia. «Mio padre era impiegato al municipio di Fiume e fu trasferito a Trento. Partimmo il 12 agosto del 1947. Una giornata estiva, afosa. Eravamo i miei due fratelli, i nostri genitori, la nonna ed io». Il viaggio comincia. Insieme ad altre famiglie, quella di Luciano è caricata su un camion aperto diretto a Trieste. «Passammo due notti in un silos al porto vecchio, vicino alla stazione. Eravamo decine di migliaia di persone. Dopo le prime due notti ci mandarono a un campo di raccolta. Non eravamo abituati alla mancanza di privacy: in quel campo, a schermarci dagli sguardi altrui c’erano soltanto le coperte».

A mano a mano, un pezzetto alla volta, il viaggio spoglia i profughi delle loro abitudini, consuma il limite del privato, apre lo sguardo sugli abissi neri della morte delle speranze. «Nel campo profughi di Trieste passammo un mese, un mese e mezzo, dopodiché finalmente raggiungemmo Trento. Ma a noi, che venivamo da una città di mare, la montagna sembrava poterci cadere addosso da un momento all’altro...».

Dopo qualche tempo in un albergo, nel 1948 la famiglia Devescovi riceve un appartamento. Il padre è regolarmente impiegato al Comune, Luciano riprende gli studi di violino, interrotti con l’esodo da Fiume. Più tardi è ammesso al Conservatorio di Bolzano, nella classe di oboe: cominciano anni di pendolarismo, finché non arriva il magistero. Da lì, l’assunzione nell’orchestra Haydn, fino al pensionamento. «Mi stabilii a Bolzano nel 1964. A Fiume ci sono tornato nel 1968, ventun anni dopo l’esodo cominciato quel 12 agosto del ‘47. E nonostante allora fossi solo un bambino, a distanza di vent’anni mi ricordavo alla perfezione tutta la toponomastica». A riempire i cantieri navali di Fiume e di Pola lasciati sguarniti degli italiani, tra il 1946 e il 1948 arrivano gli operai “monfalconesi” (chiamati così perché impiegati nei Cantieri riuniti dell’Adriatico, oggi Fincantieri, di Monfalcone e Trieste), tra cui molti simpatizzanti del comunismo. Si parlò quindi di controesodo: erano cittadini del Friuli Venezia Giulia a trasferirsi. Ma con la rottura tra Tito e Stalin nel ‘48, i monfalconesi stalinisti furono anche loro oggetto di una persecuzione che condusse molti di loro alla morte, nel gulag di Goli Otok.

Non si tratta solo di ricordi di un’infanzia lontana o delle cronache del tempo. Devescovi è testimone dell’esodo e voce degli uccisi. Mentre Giovanni Benussi cita fonti storiografiche e testimonianze, l’anziano musicista gli si avvicina, chiede di poter aggiungere un nome alla lunga trattazione storica. Un nome “bolzanino”, quello del Palatucci di “largo Palatucci”, dove hanno sede questura e polizia stradale. «Giovanni Palatucci è stato l’ultimo questore della Fiume italiana – spiega Devescovi –. Salvò almeno 5 mila perseguitati politici e razziali. Ma qualcuno lo tradì, così fu portato a Dachau, dove il 10 febbraio del ‘45 fu ucciso nelle camere a gas. Veniva dalla cittadina di Campagna, in provincia di Salerno. Suo zio, il vescovo Giuseppe Maria Palatucci, che era rimasto lì, aiutò mille ebrei a sfuggire all’internamento nei campi nazisti. Così la città ottenne la sua prima medaglia d’oro al merito civile, e ora Palatucci è ricordato nel Giardino dei giusti, in Israele».(s.m.)













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