Tremolada: profughi, non è emergenza

L’ex responsabile dei profughi di Volontarius approda alla Croce rossa: «Bisogna lavorare sull’integrazione di chi resta»


di Francesca Gonzato


BOLZANO. Andrea Tremolada ricomincia dalla Croce Rossa. Annunciate le dimissioni da River Equipe (Volontarius) dopo quindici anni di lavoro, uno degli operatori che rappresenta la memoria storica dell’accoglienza ai richiedenti asilo in Alto Adige (il suo ultimo incarico era responsabile dell’area profughi) da ottobre inizierà a lavorare nella Croce rossa. L’obiettivo, riassume il presidente Hannes Mussak, è portare il comitato provinciale della Cri «ad essere un importante attore nel panorama degli enti del terzo settore che operano in Alto Adige, sviluppando azioni, anche a livello nazionale e internazionale, nel campo della cooperazione». La Cri, ancora Mussak, da anni opera «nelle attività connesse alla protezione dei migranti, settore nel quale recentemente ha iniziato ad operare anche in questa provincia». Tremolada lascia nel momento della guerra giudiziaria interna in Confcoop, con il fondatore di Volontarius Claude Rotelli schierato con l’associazione nazionale e Walter Petrone, presidente di River Equipe, rimasto con il gruppo dirigente locale di Confcoop. «Non me ne vado per questo. Con la Croce rossa abbiamo iniziato a parlare mesi fa. E da tempo sono un loro volontario. Ho 37 anni, l’opportunità della Croce rossa è arrivata nel momento giusto per cambiare. È una organizzazione internazionale che mi potrà fare crescere, magari nella cooperazione internazionale, che è il mio sogno da quando a 17 anni andai in Kosovo con l’Agesci». Bolzanino con un nonno originario di Lampedusa... Il passaggio di Tremolada alla Croce rossa è l’occasione per analizzare cosa è stato e cosa potrà essere il rapporto con i profughi.

Lei c’è dall’inizio.

«Volontarius nacque nel 1999 per occuparsi anche dei curdi che dormivano nei giardini della stazione. Rotelli capì che mancava tutto. Dalla mera assistenza sulla strada, si passò alle prime strutture, i 3 Gobbi, l’ex Saetta, la ex Gorio dal 2003 e i minori non accompagnati in via Roma».

Erano piccoli numeri.

«Alla Gorio avevamo 45 posti. C’erano tanti curdi, afghani, albanesi, kosovari e tre africani. Quando scoppiò la crisi del Nord Africa e passammo a 197 persone, mi sembrarono cifre preoccupanti...».

Poi è iniziata la storia che conosciamo oggi.

«La data è il 22 marzo 2014, quando Bolzano iniziò ad accogliere le persone salvate nel Mediterraneo con l’operazione Mare Nostrum. Da allora sono passati circa 6000 richiedenti asilo dall’Alto Adige. Circa 1700 sono accolti oggi».

Sono stati commessi errori decisivi nella prima fase?

«Non direi. Il tema è la previsione dei numeri, che ti possono sorprendere. Gli sbarchi in luglio sono dimezzati rispetto al luglio 2016 e in agosto siamo al 10% rispetto all’agosto scorso. A chi festeggia chiedo di allargare lo sguardo fino alla Libia per chiedersi cosa succede lì e perché non partono. Molti sono prigionieri o morti».

In questi primi anni di grandi numeri si è lavorato sull’emergenza. E ora?

«È tempo di lavorare sull’integrazione. Bisogna capire che non parliamo di un problema, ma di un fenomeno. Nel primo caso, resti schiacciato sull’emergenza. Nel secondo caso, programmi. Circa il 40% dei richiedenti asilo riceve una forma di protezione internazionale. Una parte proseguirà il viaggio, altri avranno voglia di lavorare e crearsi qui una nuova vita».

Il 60% dei richiedenti asilo si vede negare la protezione internazionale. Saranno disperati. Potranno crearsi problemi di ordine pubblico?

«Non credo. Quando succede, più che la rabbia c’è lo svuotamento di ogni energia. Gli cade tutto addosso».

Contro i richiedenti asilo c’è una intolleranza violenta. Diventano il bersaglio della rabbia sociale. Loro come ci vedono?

«Non capiscono, chiedono “cosa abbiamo fatto?”. A volte hanno paura. C’è stata una fiaccolata di protesta davanti all’ex Gorio. Per alcune persone è stato rivivere nel villaggio, quando sono arrivati i guerriglieri che incendiavano le capanne. Uno dei compiti degli operatori è consentire a queste persone di ritrovarsi come persone con una dignità e la possibilità di decidere. A volte arrivano con il passaporto ancora bagnato. Dire “bene arrivati, siete a casa” è il primo passo. Contro l’odio c’è una ricetta: conoscere. A Ortisei 600 persone hanno riempito quella sala per dire no all’accoglienza. Non c’è stato un solo problema, i richiedenti asilo vengono invitati nelle scuole per raccontare la loro storia. In Alto Adige c’è anche tanta solidarietà. Sarebbe bello se fosse più “contagiosa”».

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