Una bicicletta in fondo al cuore, la piccola officina di Rodolfo Cesaro 

Il personaggio. Per decenni è stato uno dei simboli di Don Bosco: la sua passione era riparare le due ruote, ma per vivere ha venduto frutta e verdura al suo banco in piazza. «Dopo la guerra, la gente si faceva aggiustare la bici, ma poi non pagava. La miseria era tanta e lasciavo perdere»


ALBERTO FAUSTINI


C’era una volta Bolzano. Ripubblichiamo oggi la testimonianza rilasciata nel 1991 al nostro direttore Alberto Faustini da Rodolfo Cesaro, classe 1915, conosciutissimo a Don Bosco dove per decenni aveva, oltre a un banco di frutta e verdura, una piccola officina per le biciclette in un cortile di via Gutenberg. Se volete rileggere una storia, scriveteci a: bolzano@altoadige.it.

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ALBERTO FAUSTINI

Non ha fatto fortuna. E non ha nemmeno mai avuto tempo per andare in vacanza. E non ha nemmeno mai avuto tempo per andare in vacanza. Ma è un uomo felice. Ha avuto due figli che gli hanno regalato soddisfazioni difficili anche da immaginare e nel cuore ha ancora i colori di una vita intrisa di amore e di amicizia. A Don Bosco, ma anche nel quartiere Europa, lo conoscono tutti. Rodolfo Cesaro per anni ha riparato le biciclette di un’infinità di bolzanini. Quando la città scivolava leggera su due ruote, quando la macchina era una mosca bianca, non si poteva non passare da Cesaro. Metteva in ordine le bici, ma aveva anche sempre due parole piene d’amicizia per i clienti. Il denaro era poco, addirittura pochissimo, e un giorno la famiglia Cesaro ha deciso di cambiare vita e di spostarsi dietro a un banco di frutta e verdura.

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Nel Padovano – ricorda Rodolfo Cesaro – c’era una grande miseria. Nel 1938, a vent’anni, ho allora deciso di venire a Bolzano. A qualche mio amico di Padova era già andata bene. Ero dunque abbastanza ottimista. Del resto, non avevo poi molte alternative. In Veneto era difficilissimo trovare un lavoro e dovevo rischiare. Quando sono arrivato, un amico mi ha ospitato per un certo periodo. Dopo quattro mesi sono riuscito a trovare posto alle Acciaierie.

Ma la mia vera passione, anche quando ero nel Padovano, sono sempre state le biciclette.

E dopo quattro anni alle Acciaierie, ho deciso di tornare all’antico. Ho trovato una baracca in via Udine e mi sono subito messo ad aggiustare biciclette. La guerra? Avevo problemi di denti e sono sempre stato qui, a Bolzano. La baracca l’ho messa in piedi tra il ‘44 e il ‘45. I clienti non mancavano. Ma non c’erano soldi.

Riparavo le bici

ma non mi pagavano

Molte persone mi dicevano che avrebbero pagato la riparazione il giorno dopo o la settimana successiva. Ma non le ho più viste. Tirare avanti era realmente difficile. In quegli anni, però, l’amicizia contava più di ogni altra cosa. Dormivo ancora da amici e anche se la città era quasi distrutta non ho mai avuto problemi. Si andava d’accordo con tutti e la gente, quando riparavo le bici, si fermava spesso a chiacchierare con me.

Bolzano era piccolissima; ed era tutto molto diverso. Gli abitanti avevano sempre il sorriso sulle labbra. Ci si conosceva, si aveva più voglia di stare insieme, di vivere con semplicità.

Quasi tutti andavano in giro in bici. Le macchine praticamente non esistevano. Ma c’erano pochi soldi e gli affari andavano maluccio. Proprio in quei giorni mi hanno offerto una bancarella di frutta e verdura in piazza Matteotti e ho deciso di cambiare attività.

Per qualche tempo ho puntato molto sul nuovo lavoro, ma quando ho avuto nuovamente l’occasione di mettere in piedi una piccola officina non me la sono lasciata sfuggire. Dopo una breve esperienza in piazza Matteotti ho così preso in affitto uno stanzone in via Alessandria. In quel locale sono riuscito a sistemare una camera, un cucinino, e l’officina. Gli affari andavano un po’ meglio, ma è sempre stata dura. Tantissima gente mi portava la bicicletta. Alla fine del mese, però, mi rimanevano in tasca ben pochi quattrini. Aggiustare le biciclette, per me, è sempre stato molto bello. Avevo però messo su famiglia e non potevo andare avanti guadagnando così poco. Dopo otto anni ho nuovamente avuto l’occasione di prendere una bancarella, questa volta in piazza Don Bosco.

La bancarella in piazza

All’inizio ci lavorò mia moglie. Da sola, però, non ce la faceva e gli affari, soprattutto all’inizio, non andavano poi così bene. Ho allora abbandonato l’officina di via Alessandria. E dietro al banchetto di piazza Don Bosco siamo rimasti 28 anni. Tutte le mattine andavo a fare “rifornimento” di frutta e verdura.

Dopo un periodo abbastanza difficile le cose sono cambiate, anche grazie all’aiuto di una signora che aveva una bancarella a pochi passi dalla nostra. Se qualcuno non trovava qualcosa da lei, la signora lo mandava gentilmente da noi. Lavoravamo bene soprattutto il sabato e la domenica, quando gli altri negozi erano chiusi.

I supermercati

ci “schiacciarono”

L’arrivo dei grandi supermercati e i lavori nella zona di Don Bosco hanno di colpo fatto precipitare la situazione. Si lavorava meno, ma si riusciva ugualmente a sopravvivere. Giulio, nostro figlio, fortunatamente ci ha sempre dato una mano. Quando tornava da scuola, correva subito ad aiutarci. Noi, del resto, abbiamo tentato di fargli capire che il suo aiuto era due volte fondamentale. Grazie a lui non abbiamo infatti dovuto pagare un altro dipendente e i pochi soldi che abbiamo messo via, li abbiamo usati per farlo studiare. Ha sempre preso la borsa di studio e per noi non è mai stato un peso. Quando si è laureato in medicina non ha quasi avuto il tempo di festeggiare. Appena ha potuto è tornato ad aiutarci. Anche l’altra nostra figlia, Lauretta, si è laureata. Lei è nata dopo, in un periodo leggermente migliore. Ci dava comunque una mano nel periodo delle castagne. Davanti alla bancarella, d’inverno, si vendevano infatti le caldarroste. Io e mia moglie Antonia, ci siamo conosciuti nel 1956. Meno di un anno dopo ci siamo sposati. Io avevo 38 anni e lei ne aveva 33. Antonia, all’inizio, faceva la sarta e quando finiva veniva a tenermi compagnia, nella baracca dove aggiustavo le bici. In via Udine c’era un’altra baracca dove la gente ballava. Antonia, qualche volta, c’è andata. Io non ho mai avuto tempo. Ho lavorato tutta la vita. Prima di sposarmi, qualche volta, sono andato in giro: a Padova o a Verona. Dal ‘56 non ho più nemmeno avuto tempo per andare in vacanza. A volte, quando eravamo nella baracca, saltava fuori anche qualche topo. In quella zona c’erano i rifugi di guerra e sotto le baracche se ne vedevano di tutti i colori. Quando ci siamo sposati, per qualche anno, siamo stati nell’officina di via Alessandria. Vivevamo in due, e poi in quattro, in quello stanzino.

Un viaggio di nozze di un giorno

Il viaggio di nozze lo ricordiamo ancora: siamo andati un giorno a Soprabolzano. Io – interviene la signora Antonia – una volta all’anno andavo a Vicenza, dai miei, con i bambini. Rodolfo non ha invece mai smesso di lavorare. Si fermava solo tre giorni all’anno: a Pasqua, a Capodanno e a Natale. Dopo qualche anno siamo riusciti a trovare una casa un po’ accogliente, in via Glorenza. Siamo rimasti là 18 anni. Poi abbiamo fatto un mutuo e ci siamo spostati in via del Ronco, dove siamo anche adesso. Fortunatamente i nostri figli ci hanno aiutato moltissimo. Bolzano? È mutata profondamente. Non ci sono più le compagnie di una volta. Un tempo c’era poca gente. Si andava in giro a piedi, magari fino a Gries, o in bici. Ogni occasione era buona per fermarsi a chiacchierare con qualche amico, per stare insieme. All’inizio eravamo accampati, ma la vita era bella, piena d’avventura. I sacrifici e un duro lavoro erano all’ordine del giorno. Quando c’era una difficoltà, però, si trovava sempre una persona gentile. Qualcuno era insomma subito pronto a dare una mano. Quando si trattava di aiutare Don Silvio o Don Gaetano, a Don Bosco, non ci si tirava mai indietro.

Vado in bici fino a Merano

Oggi? Oggi ci godiamo una misera pensione. Mia moglie ogni tanto va a ginnastica. Io vado ancora in bicicletta. Quando tornerà il caldo mi rimetterò in sella e andrò ancora una volta a Merano e in altri paesi. Non ho mai voluto fare la patente. Ho anche aggiustato le macchine, ma non ho mai voluto guidare. A prendere la verdura andavo con un motocarro, ma appena potevo andavo in giro in bicicletta. La prima grande spesa? La lavatrice. È stata una conquista. Costava circa 25 mila lire, ma era necessaria. Antonia, nel 1959, non stava molto bene e non si poteva andare avanti senza acquistarla. Aveva due buchi: da una parte si lavava, dall’altra si risciacquava.















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