Crollano gli affari dei ristoranti «Da 80 pizze siamo passati a 4» 

Crisi nel post-lockdown. Il timore del contagio è ancora forte: i clienti scompaiono e le casse restano vuote «Abbiamo attuato le misure igieniche prescritte e messo i dipendenti in cassa integrazione, non si può sopravvivere così»


Bruno Canali


Laives. Lunedì ristoranti e pizzerie hanno riaperto, ma alla luce dei primi riscontri ci vorrà del tempo per tornare ai livelli pre-coronavirus. Unanime il giudizio di quattro fra i principali ristoratori locali che abbiamo intervistato: «La situazione è molto difficile e la gente ha paura di uscire per andare al ristorante».

«Una paura ingiustificata però – dice Roberta Esposito, della pizzeria “Alpenrose” di via Pietralba – perché, se proprio vogliamo, adesso, con tutte le precauzioni che abbiamo dovuto adottare, dal punto di vista igienico direi che è ancora più sicuro di prima dell’emergenza. Fra distanziamento, separatori sui tavoli, mascherine e guanti obbligatori, igienizzazione continua e condimenti in dosi monouso sigillate l’igiene è “da ambulatorio”. Nonostante questo però, se prima facevamo mediamente 60-80 pizze a sera, adesso succede che, come mercoledì, ne facciamo quattro. Anche come bar lavoriamo meno. Questo mi ha costretta a far fare meno ore alla dipendente, che chiamo quando necessario, e ancora non è arrivata la cassa integrazione. Certo non aiuta il fatto che allo stesso tavolo possano sedersi insieme solo membri conviventi dello stesso nucleo familiare, mentre due fidanzati o due fratelli che non abitino nello stesso appartamento debbano guardarsi da dietro uno schermo di plexiglass».

Spostandosi al ristorante “Alpenrose” di San Giacomo, il discorso non cambia: «Abbiamo aperto lunedì – dice Luca Giacomel, che è anche presidente dell’Associazione cuochi Alto Adige – ma finora gli arrivi e le prenotazioni sono sottotono. Si percepisce la paura di andare al ristorante, nonostante sia prevista tutta una serie di accortezze. Le ultime settimane avevamo avviato per la prima volta anche il servizio take away, con un discreto riscontro, segno che la voglia di andare al ristorante ci sarebbe. Purtroppo, lavorando molto meno di prima, anche il personale ho dovuto impiegarlo con orario ridotto. Ho sentito altri colleghi e mi dicono che da Trento in giù va anche peggio: speriamo che la gente torni a frequentare i ristoranti, perché altrimenti sarà un dramma».

Della paura di tornare nei luoghi pubblici parla anche Osman Opre, gestore dell’albergo “Casagrande”, in via Kennedy. «Con il servizio di take away certe sere facevamo anche 120 pizze da asporto. Abbiamo riaperto lunedì e la richiesta è crollata alla media di una ventina di pizze a sera. Specialmente le persone di una certa età hanno paura a uscire di casa per andare al ristorante. Per gli otto dipendenti ho dovuto chiedere la cassa integrazione. Vado avanti con mia moglie e coi nostri figli. Fortunatamente abbiamo operai che prenotano le camere dell’albergo, mentre tutto il resto delle richieste è stato annullato».

«Due mesi di chiusura forzata sono stati una mazzata – afferma a sua volta Juan Carlos, del ristorante-pizzeria “Da Carlos”, in via Kennedy –. Abbiamo aperto lunedì ma la situazione è difficilissima. Io possono rimanere aperto anche grazie alla disponibilità del proprietario dei locali, ma ho dovuto lasciare a casa, in cassa integrazione, 18 dipendenti e arrangiarmi con i miei familiari. Anch’io durante le scorse settimane ho organizzato il servizio take away, almeno per mantenere il contatto con i clienti, e ha funzionato. Facciamo il possibile per sopravvivere ma ancora non ho visto i 600 euro promessi».













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