L'INTERVISTA don gioele salvaterra 

Prete in Israele, decano a 39 anni «Ragazzi, apritevi» 

Parroco a Santo Spirito. Il giovane sacerdote bolzanino racconta  la sua esperienza in Terrasanta, fra Gerusalemme e Be’er Sheva Sul nuovo incarico: «Prima di tutto viene il dialogo, in ogni caso»



Merano. Scarpe da ginnastica, occhialini e pizzetto, ben altro – almeno nell’aspetto esteriore – dallo stereotipo del decano. Una spallata alla forma: da inizio mese don Gioele Salvaterra, trentanove anni compiuti pochi giorni fa, è la guida della comunità meranese di lingua italiana con l’incarico di coordinare le quattro parrocchie: Santo Spirito (dove è parroco), Santa Maria Assunta, San Giusto a Sinigo e San Vigilio a Maia Bassa. «Il mio vissuto? Non c’è molto da raccontare», dice lui per schernirsi. E invece no, sapendo della sua esperienza in Israele e guardando alla carta d’identità con la quale sta affrontando il decanato, pensiamo il contrario.

Don Gioele, qual è il suo percorso?

Sono di Bolzano, dove ho frequentato il liceo classico Carducci. Dopo la maturità ho studiato teologia, entrando in seminario a Bressanone. Terminati gli studi sono stato ospite dei Francescani a Gerusalemme.

A cosa si deve questa scelta, per lo meno “originale”?

All’epoca non avevo ancora 25 anni, non potevo essere ordinato. Quindi per sei mesi ho vissuto in Israele e per un altro semestre ho svolto un “tirocinio prolungato” parlando nelle scuole. Ricordo in particolare le superiori di Bressanone e Vipiteno.

Cosa porta con sé di quell’esperienza in Terrasanta?

Un’atmosfera particolare, ma soprattutto la possibilità di entrare in dialogo con la cultura ebraica, di approfondirne la conoscenza. Ma anche la volontà di tornare lì.

E così è stato. Ma prima un nuovo passaggio in Italia.

A 25 anni sono stato ordinato diacono. Ho servito a Santo Spirito quando parroco era prima don Michele Tomasi, poi don Gianni Cosciotti.

Il ritorno in Israele?

Ho fatto richiesta per affrontare questa esperienza, ho trovato disponibilità. A Be'er Sheva, nel contesto di una piccola comunità cristiana. Trenta, quaranta persone: da arabi israeliani a lavoratori stranieri. Un gruppo disomogeneo, che nella chiesa trovava un punto di riferimento. Cinque anni intensi.

E con la comunicazione ai fedeli e nella vita quotidiana?

Un po’ di ebraico già lo conoscevo, ma a dire il vero il suo studio è una passione. Quindi viene tutto più facile.

Quanto tempo ha passato in Israele?

Cinque anni, sono tornato trentaquattrenne.

Poi, parroco a Santo Spirito e ora anche decano, in sostituzione di don Gabriele Pedrotti. Qual è la sua linea guida?

Tengo molto all’apertura verso tutti. Al dialogo. Anche e soprattutto con i giovani. Nefasto è l’atteggiamento di chiusura nei confronti degli altri, senza aprirsi si rischia di cadere o di far cadere nella violenza (il riferimento è anche ai recenti episodi accaduti in città, ndr). E tanto il “non chiudersi” è importante per i giovani, ma a dire il vero per chiunque, quanto lo è la disponibilità ad ascoltare i ragazzi. SIM

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