Donne nel lager Le umiliazioni e la solidarietà 

Le testimonianze. Marie Winifred Fava racconta il lavoro da schiave, Gianna Zucchetti le costrizioni, Anna Visintin la fame delle detenute E poi Luciana Menici, arrestata perché figlia di un partigiano camuno, fino all’evasione disperata di Albertina Brogliati e di Ernesta Sonego


Jimmy Milanese


Merano. Nel dramma e nella tragedia collettiva che è stata la Seconda Guerra Mondiale, seppur per breve periodo anche a Merano è stato attivo un campo di concentramento, più propriamente un campo di lavoro satellite rispetto a quello principale di Bolzano, allestito nel luglio del 1944 e funzionante fino al 30 aprile 1945. Il “lager” meranese – il principale dei sette sottocampi in provincia - sorgeva presso l'attuale caserma Rossi, poi spostato presso la caserma “Venosta della Guardia alla Frontiera” o ex Bosin, per intenderci, anche se per motivi logistici altri edifici militari della città vennero adibiti a luoghi per il contenimento dei prigionieri.

Da 100 fino a un massimo di 400 il numero degli internati presenti contemporaneamente nel lager di Merano, imprigionati ai quali veniva imposto il compito di smistamento delle merci che le SS avevano trafugato nel corso delle loro scorribande in Itaia. Beni destinati alla Germania, previo passaggio in alcuni castelli di Maia Alta occupati dai nazisti e dai quali certi oggetti di valore non sono mai più stati riconsegnati ai legittimi proprietari. Ad effettuare queste operazioni di trasporto, appunto, gli internati del lager di Merano.

Marie Winfred Fava.

Per spiegare le condizioni all'interno del campo di Merano, tra le altre abbiamo la deposizione agli Alleati della detenuta Marie Winifred Fava. «Il lavoro dei prigionieri era faticosissimo, impiegati a caricare e scaricare carri. Un’attività da schiavi con donne obbligate a portare sulle spalle pesi da 40 a 60 chili e talvolta anche più: carichi eccessivi per gente mal nutrita», scriveva l'internata trasferita al campo di Merano. Era il 25 ottobre del 1944.

La deposizione di Winifred Fava è trascritta nel capitolo dedicato al campo di Merano all'interno del prezioso volume di Costantino di Sante “Criminali del campo di concentramento di Bolzano” (ed. Raetia). Nel capitolo dedicato al lager meranese, Fava spiega un aneddoto significativo sulla vita all'interno del campo. «Per una lieve mancanza commessa da una prigioniera, il tenente del campo la portò nel dormitorio e volle che si spogliasse, cosa che essa rifiutò di fare completamente e, quasi nuda, ricevette da lui parecchie frustate, i cui segni vidi personalmente sul suo corpo e sulle sue braccia».

Gianna Zucchetti.

In gran parte, questo luogo di sofferenza a due passi dal centro della città ospitava detenute provenienti dal nord Italia. Ragazze spesso giovani le quali per garantirsi la sopravvivenza in alcuni casi erano costrette a sottomettersi a qualsiasi tipo di relazione intima con le guardie SS o con il comandante del campo - tale tenente W. Hirt, alla fine rimosso proprio per la sua attitudine verso questo tipo di pratiche. Umiliazioni, molestie, violenze che in alcuni casi erano perfino favorite da altre donne come Gianna Zucchetti: la famigerata capo campo della sezione femminile nella quale veniva impiegata manodopera al servizio dell'organizzazione chimica dell'esercito tedesco con sede, appunto, a Maia Bassa.

Olandese di quasi 50 anni, venne poi arrestata proprio per avere indotto ufficiali delle SS a comportamenti impropri. Giunta al campo di Merano, anche per la sua conoscenza della lingua tedesca Gianna Zucchetti viene elevata al ruolo di responsabile della sezione femminile. È proprio lei a stringere relazioni intime con le SS di stanza nei castelli meranesi, garantendosi una serie di protezioni e inducendo quando non obbligando alcune giovani a consumare rapporti sessuali con gli stessi militari tedeschi. Protezioni che le torneranno utili subito dopo la liberazione, quando la Zucchetti riesce a riparare in una delle ville meranesi nascosta da un sergente tedesco di nome Krakeler dove stringe amicizia con le truppe americane stanziate presso il parco Winkel di Maia Alta.

Tullio Bettiol.

Sempre sulle condizioni di vita nel lager di Merano è disponibile un'altra preziosissima testimonianza dell'internato Tullio Bettiol il quale dal lager di Merano riesce perfino ad evadere. I suoi ricordi questa volta sono riportati nel volume di Paolo Valente “Porto di Merano”, Temi editrice. «Qui si sta un po' meglio che a Bolzano, sia come vitto che come servizi», scrive Bettiol. «Meglio però non significa bene», spiega Winifred Fava, raccontando un aneddoto che restituisce la misura delle condizioni di vita nel campo. «Il cibo era di qualità assai scadente, senza riguardo al tipo di gravoso lavoro coatto che era richiesto. Una cattiva minestra a pranzo con legumi secchi talmente vecchi che non si riuscivano a cucinare, tanto che un giorno, un maggiore tedesco in visita al campo, prese la scodella di un prigioniero e dopo avere annusato fece una smorfia di disgusto dicendo che era immangiabile», ricorda il detenuto.

Luciana Menici.

Donne, come detto, presenti nel lager di Merano in numero maggiore rispetto alla popolazione maschile, ricorda Bettiol: antifasciste, partigiane, rastrellate o prostitute. Ragazze che tra di loro avevano sviluppato un senso di solidarietà, nonostante nel campo fosse buona regola parlare il meno possibile per evitare il rischio di venire traditi. Tra le imprigionate non era raro incontrare le cosiddette “Sippenhäflige”. Termine, questo, difficilmente traducibile oggi ma che allora indicava le detenute imprigionate solo in quanto parenti di partigiani ricercati. La speranza degli aguzzini era che che questi si sarebbero così consegnati in cambio della liberazione delle loro donne. Era stato Franz Hofer commissario della Zona d'operazioni delle Prealpi ad approvare nel gennaio del 1944 una ordinanza secondo la quale diventava possibile incarcerare a titolo di ricatto anche i parenti delle persone ricercate.

Arrestare una donna, torturarla, umiliarla, si accorse ben presto il Gauleiter, era uno stratagemma che aumentava di molto la probabilità che i ricercati si sarebbero così consegnati. È il caso di Luciana Menici, la quale a Merano arriva nel febbraio del 1945, dopo essere stata catturata nel bellunese in quanto figlia di un partigiano che stava organizzando la resistenza in val Camonica.

Brogliati e Sonego.

Altro caso è quello della internata Albertina Brogliati che dopo la guerra diventò apprezzata insegnante d'arte e pittrice e alla quale è intitolata una strada della zona artigianale di Merano dove una volta sorgeva lo stesso lager. Catturata dalle SS e trasferita nel novembre del 1944 a Merano con l'imputazione d'essere una parente di un partigiano bellunese, Albertina viene costretta a trasportare merce trafugata e lavorare nella fabbrica che a Maia Bassa produceva materiale sanitario.

Proprio le condizioni di lavoro disumane alle quali è sottoposta sono la causa di una malattia infettiva che costringe la giovane bellunese al ricovero nell'ospedale meranese dove operano il primario Adolfo Franceschini e il dermatologo Ramiro Dante Policaro i quali, supportati dal Comitato di liberazione nazionale meranese e amici della famiglia Brogliati, agevolano l'organizzazione della sua fuga. Con lei, dal lager di Merano evade anche Ernesta Sonego che in una lunga intervista a Paolo Valente ricorda con lucidità quei momenti concitati. «Al ritorno di Albertina dall'ospedale mettemmo in atto il nostro piano. Avendo notato che le cassette dei rifiuti adagiate sul muro di cinta superavano di parecchio la fossa, quindi, ci saremmo potute arrampicare sul muro stesso per saltare oltre. La terra era coperta di neve e molto probabilmente per guadagnare in anticipo la libera uscita i tedeschi di guardia avevano lasciato la garrita dieci minuti prima del cambio. In questo modo avevamo un buon vantaggio, perché sapevamo bene che una volta scoperta la fuga ci avrebbero mandato i cani addosso. Ognuna per conto proprio, andammo alla Reichsstrasse (oggi via Roma ndr) dove ci aspettava Ivelia per portarci da don Primo Michelotti il quale ci tenne da lui fino al 2 gennaio 1945, poi mi diede 1500 lire e me ne tornati a casa dove arrivai solo il 29 aprile».

Anna Visintin.

Donne aiutate da altre donne, quindi, tra le quali anche alcune meranesi come Anna Visintin che dalla sua abitazione presso il passaggio a livello del Bersaglio tutti i giorni vede passare camion pieni di ragazze trasportate alla stazione per lavorare. «Non si poteva parlare con loro, mamma ogni tanto riusciva ad allungare a qualcuna un filone di pane perché se lo spartissero tra loro, ma un nostro conoscente era venuto ad avvertirci che così ci avrebbero potuto chiudere il negozio. Mio papà lo ha ringraziato per l'avvertimento ma abbiamo continuato a dar loro da mangiare», ricorda Anna in una intervista di qualche anno fa.

Nissam Gabbai.

Nel campo di Merano il cibo è il problema principale per tutti i prigionieri. A raccontare un aneddoto da brividi su questo aspetto, in una intervista rilasciata nel 2004, è l'internato Nissam Gabbai. Era un ingegnere torinese nominato capo campo e addetto alla riparazione di impianti elettrici. «La vigilia di Natale del 1944 verso le 5 del pomeriggio vedo arrivare il maggiore del campo con una bottiglia di Champagne e un pezzo di torta. Viene da me, me li dà dicendo che vuole che anche io festeggi il Natale. Questo descrive bene come erano quelle persone: in un momento lasciarsi andare, per poi fucilarci e sterminarci come niente fosse».

A ricordare la presenza del lager di Merano oggi rimane una semplice targa posta in via Zuegg sul muro di cinta che una volta rappresentava il confine tra la prigionia e la libertà.

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