L'anniversario

La tragedia di Malga Villalta: 50 anni fa sette alpini travolti dalla slavina 

Li chiamavano la “Compagnia di Dio”: puntavano ad arrivare sulle vette delle Alpi ma la montagna non diede loro scampo. Il dramma tra la val di Zerzer e la valle di Slingia. Oggi i due superstiti Giuseppe Invernizzi e Nevio Brivio raccontano quei drammatici momenti


Jimmy Milanese


MALLES. Sono passati 50 anni da quell’alba del 12 febbraio 1972. L’ultima per Domenico Marcolongo, Duilio Saviane, Luigi Corbetta, Davide Tognela, Gianfranco Boschini, Valdo del Monte e Romeo Bellini: i sette Alpini del Battaglione “Tirano”, 5° Reggimento, 49esima compagnia, deceduti sotto una slavina mentre erano in marcia nei pressi di Malga Villalta.

La chiamavano “Compagnia di Dio”, forse perché a loro era richiesto di arrivare in cima alle vette delle Alpi, carichi di pesanti cannoni 57mm sulle spalle. Quella mattina del 12 febbraio, tra la valle Zerzer e la val Slingia, a 2.800 metri di altezza, una valanga si staccò dalla montagna investendo i giovani alpini di leva del 5° Reggimento con sede alla caserma “Wackermell” di Malles. Giovani di nemmeno vent’anni anni impegnati in un campo invernale in località Villalta nel comune di Curon Venosta.

Le tragedie sulle Alpi

All’inizio degli anni settanta, i timori per una possibile invasione dell’Italia da parte dei paesi del Patto di Varsavia, proprio attraverso le Alpi, non erano ancora stati del tutto relegati ai libri di storia. Anche per questo motivo, il presidio della cortina alpina all’epoca rappresentava una delle priorità per il IV Corpo d’Armata che comandava i suoi giovani militi in missioni molto spesso al limite delle capacità umane. Infatti, l’incidente di Malga Villalta, seppur di rilevanti dimensioni, non rappresentava purtroppo un caso isolato. Nelle truppe alpine, con le manovre in alta quota effettuate in inverno, già in precedenza e poi anche in seguito, si registrarono casi analoghi di valanghe che travolgevano le marce degli alpini sulla neve, spesso con pesanti bilanci di morti e feriti. Solamente in Alto Adige, due soldati erano deceduti in val Fiscalina nel 1961, cinque lo stesso anno in val di Mazia, sette già nel 1970 a Ponticello di Braies, tre nel maggio del 1974 nella zona del Rifugio Coronelle sul Catinaccio.

Funerali vietati

Quello che però ha trasformato la tragedia di Malga Villalta in uno degli eventi più significativi tra i purtroppo tanti casi simili, fu l’immediato interesse dei media e una gestione da parte dei vertici militari che scatenò non poche polemiche. Non ultimo, il divieto imposto ai sopravvissuti, prima di comunicare con i loro familiari, poi di partecipare ai funerali dei commilitoni deceduti. Sono gli eventi di quelle lunghissime ore tra l’11 e il 12 febbraio 1972 a spiegare i motivi di questa reticenza da parte dei vertici del IV Corpo d’Armata che all’epoca bollò l’evento come una «tragica fatalità», dopo una inchiesta interna che non aveva portato a nessun risultato.

La voce dei due superstiti

In una recente e toccante intervista a “La voce degli Alpini”, a raccontare quei fatti sono due superstiti: Giuseppe Invernizzi e Nevio Brivio. Dalle loro testimonianze emerge una catena di errori umani che alla fine portarono la magistratura a condannare in via definitiva il tenente Gianluigi Palestro a una pena di 8 mesi, proprio per non avere fermato sul nascere quella esercitazione, viste le condizioni meteorologiche del tutto avverse. Racconta Invernizzi: «Come me, molti di noi arrivarono alla caserma di Malles senza alcuna formazione specifica. L’impatto fu traumatico, perché chiaramente non eravamo preparati a nulla. Quell’11 febbraio venimmo mandati a fare una esercitazione della durata di 15 giorni, senza che ci venisse spiegato molto. Sapevamo solo che avremmo dovuto raggiungere Malga Villalta. Prima di Villalta, sul cammino avevamo trovato un contingente di artiglieri che avrebbe dovuto fare lo stesso percorso, ma vista la neve e la bufera che imperversava nella valle erano fermi da una settimana. Verso le 13.30 di quel venerdì siamo effettivamente arrivati a Vilallta, dove ci siamo accampati», racconta Invernizzi, aggiungendo un particolare che durante il processo a carico dei vertici militari ebbe non poco peso.

«Durante il tragitto con noi avevamo dieci muli carichi di viveri, ma viste le difficoltà otto di questi vennero rimandati in caserma. Prima di partire da Malga Villalta ci dissero che avremmo dovuto scavalcare la forcella di Slinger per poi raggiungere una ex caserma della Guardia di finanza. Tutto questo, senza attrezzature adeguate per l’impresa. In tasca avevamo un cordino anti-valanga che mai ci dissero di tirare fuori. In dotazione avevamo anche delle radio che però non funzionavano», sottolinea Invernizzi. Prosegue il suo racconto, il testimone: «All’alba del 12 febbraio dunque partimmo, anche se durante la notte la bufera aveva imperversato tanto da tenerci tutti svegli. C’era molta tensione e alcuni avevano recitato il Rosario. Dalle ore 3.00 previste, la partenza venne posticipata di due ore, alle 5.00. Riuscimmo a percorrere non più di 150 metri, accorgendoci subito che era impossibile continuare. Ci venne dato l’ordine di far andare in testa chi portava le armi più leggere e dopo altri 50 metri, con una visibilità ridotta a zero, sentimmo un forte tonfo. Fummo investiti dalla valanga e lì per lì persi conoscenza», ricorda Invernizzi che poco dopo venne ritrovato da un compagno. Si era accorto che un suo piede spuntava fuori dalla neve!

Soccorsi fuori tempo

Sempre sotto il buio, il freddo e una tormenta di neve che non permetteva alcuna visibilità, i superstiti raccontano di essere tornati al rifugio e che soltanto dopo l’appello si resero conto dell’assenza di una ventina di loro commilitoni. Date le condizioni meteorologiche, spiegano, i soccorsi arrivarono troppo tardi per poter salvare vite umane. A questo punto, è Nevio Brivio a raccontare come andarono le concitate operazioni di salvataggio.

«Aveva il collo spezzato»

«Anche io venni travolto dalla slavina e con notevole sforzo riuscii a liberarmi da quella immensa massa di neve che la tormenta sparava negli occhi. Riuscii a recuperare il corpo di un commilitone: il cannone 57 mm da 20 chili che portava sulle spalle gli aveva spezzato il collo. Completamente congelati scavammo a mani nude nella neve alla ricerca dei nostri compagni, nella speranza che i soccorsi sarebbero arrivati quanto prima, cosa che però non accadde. Sette di noi non ce la fecero», ricorda oggi Brivio.

I militari: «Tragica fatalità»

Consumata la tragedia, la seconda parte di questa vicenda racconta di un tentativo da parte dei vertici militari atto a ridurre il tutto a una tragica fatalità. «Al ritorno ricevemmo un ordine tassativo di non parlare con nessuno. Una volta in caserma ci vietarono di uscire e di telefonare anche ai nostri familiari, mentre all’esterno i giornalisti insistevano per ottenere informazioni. Non solo, ci venne perfino proibita la partecipazione ai funerali dei nostri commilitoni morti a Villalta che vennero celebrati alla caserma Rossi di Merano», chiosa Brivio.

Le verità nascoste

Poche settimane dopo quell'ultima alba venne pubblicato un documento dal titolo “Di naja si muore”. Conteneva una precisa ricostruzione dei fatti e molte verità tenute nascoste dai vertici militari. «Da parte sua, lo Stato garantì una pensione di 800.000 lire ai soli familiari delle vittime che poterono dimostrare di versare in condizioni economiche non agiate», spiega Antonio Marcolongo, fratello di una delle vittime e coordinatore dei parenti di Malga Villalta che aggiunge: «Invece, l’ufficiale che diede l’ordine di procedere nonostante le condizioni proibitive, alla fine della sua carriera si congedò con il grado di generale».

L’ottava vittima

Sette quindi le vittime di Malga Villalta, anche se per qualcuno sono otto. Sei mesi dopo la tragedia, accanto alla cappella che ogni anno accoglie in pellegrinaggio i parenti e i compagni dei militi scomparsi, Ettore Mossali – uno dei superstiti e fabbro di professione - pose una croce in ferro a ricordo della maledetta notte tra l’11 e il 12 febbraio. Dopo qualche anno, forse incapace di convivere con quel ricordo, Mossali si tolse la vita. Per chi lassù c’era, Ettore Mossali è l’ottava vittima di Malga Villalta.













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