Tamburi di pace, Rumiz stasera al Kursaal 

Lo scrittore: «Spettacolo con storie tratte dai miei libri e musiche di Mahler, Rachmaninov e Strauss»



MERANO. «Un mix di musica classica e parole unico in Europa, per un’orchestra di 50 elementi provenienti dall'Europa centro-orientale che accompagneranno alcuni miei racconti». Questa sera, la rassegna «Appuntamento a Merano» si sposta al Kursaal e alle 21 presenterà «Tamburi di Pace», lo spettacolo itinerante dello scrittore triestino Paolo Rumiz, con al centro l'idea di Europa e quella pace conquistata con il sangue.

Tamburi di Pace: cosa dobbiamo aspettarci?

«Un abbinamento tra storie tratte da miei libri, intervallate da musiche di Mahler, Borodin, Elgar, Rachmaninov, Sibelius e Strauss, eseguite dalla European Spirit of Youth Orchestra».

Una orchestra di giovani musicisti, quindi?

«Si, che rinasce ogni anno, con giovani elementi nuovi selezionati proprio da quella parte più euro-scettica del nostro continente».

La musica, per fortuna, parla una sola lingua...

«E infatti, i ragazzi mi hanno sedotto. Abbiamo un direttore, Igor Coretti-Kuret, che da 20 anni crede in questa utopia: unire l' Europa. E i musicisti, senza minimamente perdere la loro identità nazionale, si amalgamano, vivendo la loro diversità come ricchezza. Posso dire una cosa: un politico o manager che vedesse questo spettacolo, capirebbe meglio come si devono gestire gli uomini».

Deve essere un bell'impegno per lei, abituato a viaggiare sempre

«Sono 4 anni che vivo con questa orchestra, e lo faccio gratuitamente, perché questo è un messaggio che va dato. Alla fine del concerto, i nostri musicisti suonano l'Inno alla Gioia, e il pubblico si alza; sempre. Nel 2017, in 12 concerti circa 8000 persone si sono alzate per applaudire; sempre. Questa è politica nel senso più nobile».

Insomma, i confini che si diluiscono?

«Ma io amo i confini, perché sono grandi suggeritori di viaggio. Una linea magnifica da oltrepassare. C'era più Europa quando si doveva mostrare il passaporto, per varcare i confini. Oggi, la macchina dei reticolati si è messa in moto».

Perché, fatalmente, i popoli si dividono, allora?

«Se è vero che siamo circondati da pericoli, avremmo dei motivi più che validi per unirci, non per dividerci. E' da imbecilli dire che bisogna uscire dall'Europa, ad esempio. Invece, come facciamo noi, è necessario narrarla, questa Europa, ma con un linguaggio nuovo, migliore».

Che tipo di linguaggio?

«Che prenda le persone per il cuore, narrando il fatto che siamo anche storia, leggenda, montagne, fiumi, popoli che si muovono; non solo leggi e regolamenti. Siamo tanto monasteri quanto guerre. Tutto questo va narrato emotivamente, cosa che la politica non fa più. Io sento l'urgenza di raccontare l'Europa con un linguaggio diverso».

C'è da superare l'indole aggressiva dell'uomo.

«Gli uomini hanno propensione allo scontro, e per evitarlo è necessario tenere in vita la memoria, non dimenticare quanto orribile sia la guerra. E' il dovere di un politico, tenere in vita la memoria della guerra, ma una memoria non celebrativa. Come dire, utile a spaventarci in modo costruttivo. I bambini giocano alla guerra, perché così la esorcizzano».

Lei ha viaggiato molto, cosa ci rende chiusi e vulnerabili?

«La chiusura nasce da paure, spesso inesistenti, magari reali ma pompate dalla politica. Oggi cresciamo populisti che fanno leva sulla paura. Il mondo del web rende vulnerabili a questo tipo di paure: ci rende preda delle emozioni, più che della realtà».

Eppure, la propensione alla divisione sembra oggi dominante in Europa

«Viviamo in un paese circondato dai dazi di Trump, guerre nei Balcani sempre pronte a scoppiare, la destabilizzazione del sud-est del Mediterraneo, in gran parte nostra responsabilità. Perché dovremmo dividerci, e fare il gioco dei fondamentalisimi. Ha senso?».

Un mondo che si avvicina, e noi che ci allontaniamo?

«Padri che non sanno cosa fanno i figli, a loro volta chiusi in una crisalide, presi dentro la rete. Come possiamo pretendere di capire lo straniero? Il problema è che siamo impauriti da tutto. La politica non è in grado di rispondere a queste ansie, e offre dei megafoni alle paure. In poche parole, se ne nutre».(ji.mi)















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