La storia

L’ultimo legionario d’Indocina

Giorgio Cargioli sabato alle 18 sarà al Circolo Cittadino di Bolzano per raccontare dal vivo la sua esperienza nella Legione straniera francese e nella guerra in Vietnam, contenuta nel libro di Luca Fregona “Laggiù dove si muore”. «I miei amici sono stati tutti uccisi»



Bolzano. È uno degli ultimi italiani ancora in vita ad aver combattuto in Vietnam con la Legione straniera francese nella prima guerra d’Indocina (1946-1954). Giorgio Cargioli, 88 anni, sarà a Bolzano sabato 2 dicembre al Circolo Cittadino di Bolzano (alle ore 18) per raccontare di persona la sua storia, raccolta nel libro del giornalista Luca Fregona “Laggiù dove si muore”. L’appuntamento è nell’ambito della rassegna “Un Natale di Libri” dell’Azienda di soggiorno (con Fregona e la moderazione di Francesca Califano). Cargioli, originario di La Spezia, firmò l’ingaggio nella primavera del 1953. «Avevo appena compiuto 18 anni - racconta -. In Italia ero ancora minorenne, ma per la Legione ero pronto e vaccinato per andare a morire a diecimila chilometri di distanza da casa».

Come ci finì nella Legione?

«A Spezia morivo di fame. Ero andato a lavorare a 12 anni. La paga era una miseria, non c’erano prospettive in quella Italia in macerie. Noi ragazzi avevamo il mito della Francia. Dicevano che lì il lavoro era garantito...»

E...

«Il lunedì di Pasqua del ’53 con altri due amici presi il treno per Ventimiglia. Ai miei genitori non dissi niente. Sparii e basta».

Avete passato il confine da clandestini?

«Sì. Abbiamo imboccato il sentiero dei contrabbandieri, il “passo della morte”, dalla frazione di Grimaldi, dove ancora oggi transitano di nascosto i migranti africani. Una volta di là, i gendarmi ci arrestarono subito. In cella si presentò un sergente della Legione. Era italiano, di Torino».

Come vi convinse?

«Con la carota e il bastone. Ci disse che saremmo finiti in galera e che ci avrebbero rispediti a calci nel sedere in Italia con la fedina penale sporca. Ma, se entravamo nella Legione, avremmo avuto una buona paga e, dopo i cinque anni di ferma obbligatoria, un lavoro e la cittadinanza francese. Abboccai. Non sapevo niente dell’Indocina, e men che meno che si stesse combattendo una ferocissima guerra di riconquista coloniale».

La spediscono in Algeria per l'addestramento...

«Sì. L’impatto fu durissimo. Gli istruttori erano tutti tedeschi, ex SS, nazisti fino al midollo. Vere carogne. Con noi italiani ce l’avevano per il “tradimento” dell’8 settembre. Botte, marce estenuanti nel deserto con 30 chili sulle spalle, punizioni per un niente. La disciplina maniacale. Mi sono reso conto subito di aver commesso un errore madornale...».

E così tenta di disertare...

«Sì. Con altri quattro legionari italiani. Abbiamo tentato di raggiungere a piedi il confine con il Marocco. Un pied-noir, un francese di Algeria, ci ha catturati e riconsegnati alle Legione. La punizione è stata terribile. Mi hanno tenuto dieci giorni nudo in un cunicolo sottoterra. Non sapevo più se fosso giorno o notte... Il ricordo mi tormenta ancora».

Poi...

«Nel dicembre mi imbarco per l’Indocina. Sono arrivato a Saigon ai primi di gennaio del ’54. Mi hanno sbattuto subito nel delta del Fiume Rosso con il 5° Reggimento straniero di fanteria. Ho combattuto per sette mesi ogni santo giorno nel fango delle risaie. I viet minavano tutto: villaggi, strade, viottoli, persino dentro le capanne. Eravamo costretti a camminare sempre in mezzo all’acqua con il fucile sulla testa. Giorni e giorni sotto la pioggia, sempre sotto attacco, sempre fradici, mangiati dalle sanguisughe e dalle zanzare, con i piedi ricoperti di ulcere e vesciche. Non so nemmeno come ho fatto a sopravvivere. Tutti gli amici mi sono morti accanto uno dietro l’altro».

Che guerra era?

«Una guerra di guerriglia a cui i francesi non erano preparati. Il Viet Minh, l’esercito di liberazione di Ho Chi Minh e del generale Giap, aveva un appoggio diffusissimo tra i contadini del delta. I partigiani erano implacabili, le imboscate continue, e la nostra vendetta tremenda».

A cosa si riferisce?

«Rastrellamenti, tortura, esecuzioni sommarie. Davamo fuoco ai villaggi. Spargevamo benzina sulle riserve di riso. Io tentavo di oppormi, di rifiutarmi ad eseguire ordini che non condividevo, ma non sempre potevo farlo».

Nel libro lei racconta di quando le ordinarono di uccidere dei civili...

«Eravamo entrati in un villaggio in cerca di partigiani. Non trovammo nessuno. Solo vecchi, donne e bambini. Mentre stavamo per andarcene, un legionario calpestò una mina. L’esplosione gli portò via il piede. L’ufficiale fece radunare i civili davanti al muro della pagoda, poi mi ordinò di piazzare la mitragliatrice e ucciderli tutti...».

E lei?

«Sparo una raffica sopra le loro teste. L’ufficiale allora mi punta la pistola. Sparo una seconda raffica, ma sempre verso il cielo».

E lui?

Dà l’ordine a un altro, che lo esegue. Il giorno dopo vado a rapporto dal comandante della compagnia. Mi dice che se mi rifiuto un’altra volta, mi uccidono. Gli ho risposto che mi sparassero pure, ma non volevo dei civili sulla coscienza. Finì lì. Non potevano permettersi di perdere un altro soldato. Altre volte però non ho potuto fare niente, specialmente quando torturavamo ragazzini sospettati di aiutare i partigiani».

La guerra si trascina orribile fino alla sconfitta di Dien Bien Phu, il 7 maggio del 1954, che segna la sconfitta della Francia.

«Mi hanno chiesto di offrirmi volontario per essere paracadutato sulla conca sotto assedio, dissi di no. Era un suicidio annunciato. Nel delta del Fiume Rosso abbiamo però continuato a combattere, uccidere e morire fino all’armistizio del 21 luglio».

Lei come si sentiva?

«Avevo 19 anni e la sensazione di vivere in un incubo senza fine. In Italia ero iscritto al Pci, avevo quel tanto di coscienza politica per capire che quella era una guerra ingiusta. Ero colpito dal coraggio e dalla dignità dei vietnamiti. E anche da quello che avevo visto fare alla popolazione... Mi restavano altri tre anni di Legione, non avevo nessuna intenzione di andare a fare le stesse cose in Algeria, dove stava per esplodere un’altra guerra che covava da tempo sotto la cenere, e che avevo già annusato durante l’addestramento in Nordafrica, dove spesso eravamo impegnati in operazioni contro i ribelli».

Quindi?

«Diserto, ma a guerra finita, dopo aver comunque onorato il mio debito verso la Legione. Ero stato decorato due volte al valore. Crudeltà così, però, non volevo più vederne. Volevo solo tornarmene a casa. Passo con il Viet Minh con la promessa del rimpatrio via Cina e Urss».

Invece?

«Ci parcheggiano in un campo di disertori in mezzo alla foresta nel nord, al confine con la Cina, dove i compagni muoiono come mosche di denutrizione e malaria. I viet ci davano due razioni scarse di riso al giorno e nessun medicinale. Ogni giorno contavamo i morti, che poi dovevamo seppellire noi. Eravamo così deboli che scavavamo buche di poche decine di centimetri. Quando pioveva spuntavano i piedi o le braccia».

Quanto resta nel campo?

«Diversi mesi. Fino a quando non è chiaro che il rimpatrio via Urss è impossibile. I viet allora ci dicono che abbiamo due alternative: rimanere con loro a costruire il paradiso socialista (avevano un grande bisogno di tecnici e operai specializzati), oppure essere riconsegnati ai francesi sotto il 17esimo parallelo (gli accordi di Ginevra avevano diviso il paese in due: il nord comunista e il sud in orbita occidentale, con gli Usa che prendono il posto della Francia, ndr)».

Lei cosa decide?

«In Vietnam non volevo restare, avevo capito che il paradiso, anche se socialista, non esiste. Mi consegno ai francesi, che mi sbattono in cella a Saigon e sotto corte marziale. Vengo condannato a due anni da scontare alle Baumettes di Marsiglia. “Solo” due anni perché avevo disertato a guerra finita e avevo pur sempre due medaglie al valore sul petto. Finita la pena, avrei comunque dovuto saldare gli ultimi tre anni con la Legione straniera prima di tornare libero. Tre più due fa cinque, senza la sicurezza di uscirne vivo».

Una prospettiva da brividi.

«Infatti. Nel luglio del 1955 insieme ad altri 103 disertori condannati a pene fino all’ergastolo, ci imbarcano su una nave prigione con destinazione Marsiglia».

E cosa succede?

«Be’ per saperlo, basta leggere il libro, o venire sabato ad ascoltarlo dalla mia bocca».©RIPRODUZIONE RISERVATA.













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