Vie Rasella, ecco chi erano i soldati del Terzo battaglione Bozen 

Il libro. Dino Messina nel suo volume “Controversie su un massacro. Via Rasella e le Fosse Ardeatine” ricostruisce i profili dei sudtirolesi che facevano parte della compagnia colpita dall’attentato dei Gap. «Non erano soldati inoffensivi, ma si rifiutarono di partecipare alla rappresaglia»


Dino Messina


Esce oggi in libreria il volume di Dino Messina “Controversie per un massacro. Via Rasella e le Fosse Ardeatine. Una tragedia italiana” (Solferino). A ottant’anni dagli eventi, Messina ricostruisce anche sulle base di nuove testimonianze l’intera storia, i processi ai responsabili della rappresaglia, Kesselring, Mälzer, Mackensen, Kappler e Priebke. E le dispute politiche ancora scottanti, dall’intervento di Norberto Bobbio negli anni Settanta alle più recenti dichiarazioni di esponenti della maggioranza di governo. Ne pubblichiamo un'anticipazione.

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dino messina

«Feige Hunde», «cani vili», urlò il maggiore Hellmuth Dobek, comandante del Terzo battaglione Bozen quando, salito nelle soffitte del Viminale, dove i suoi sottoposti erano acquartierati, si sentì rispondere che no, loro proprio non se la sentivano di partecipare alla rappresaglia per vendicare i trentatré commilitoni caduti nell’attentato di via Rasella. Bisogna partire da questo no, da questo rifiuto non scontato, che poteva comportare anche pene severe, per capire chi erano davvero i 156 soldati dell’Undicesima compagnia del Terzo battaglione Bozen. Nazisti sanguinari? Volontari delle SS di una guerra in cui credevano ciecamente? O coscritti cui era stato imposto un arruolamento subito a malincuore? Il primo sparuto nucleo di polizia militare del Reich composto da sudtirolesi si formò nel 1939, quando in seguito a un accordo tra Roma e Berlino venne offerta ai cittadini di lingua tedesca e ladina delle province di Bolzano, Trento e Belluno la possibilità di optare per la cittadinanza tedesca, che prevedeva anche il trasferimento. Furono molti gli altoatesini optanti. Ma dopo i primi trasferimenti emersero difficoltà che bloccarono l’esodo: il cambio di nazionalità comportava la vendita delle proprietà, non sempre a un prezzo vantaggioso, e inoltre ci si rese conto che l’accoglienza non era delle migliori. Cosicché la maggior parte degli optanti rimase in Italia, pur avendo scelto un’altra nazionalità. Le cose si complicarono ulteriormente dopo l’8 settembre 1943 quando con mossa fulminea la Germania nazista creò due zone di operazioni, l’Adriatisches Kustenland, a est, con Udine, Gorizia, Trieste, Lubiana, l’Istria e Fiume, e l’Alpenvorland a sud del Brennero, la zona di operazioni delle Prealpi, con le province di Bolzano, Trento e Belluno, che venne affidata al Gauleiter Franz Hofer. (...) Nell’ottobre 1943 venne istituito, sotto la direzione del colonnello Alois Menschick, un reggimento con quattro battaglioni di polizia altoatesina, poi ridotti a tre, con compiti di sorveglianza dei presidi militari, di controllo della sicurezza interna e lotta alle formazioni partigiane. Il nome originario era Polizeiregiment Südtirol, poi cambiato in Bozen, con circa duemila unità. Successivamente nacquero i reggimenti «Alpenvorland» (Prealpi), «Schlanders» (Silandro) e «Brixen» (Bressanone). Complessivamente gli effettivi dei Polizeiregiment del Sudtirolo raggiunsero diecimila unità. Il reggimento Bozen prestò giuramento il 30 gennaio 1944 alla presenza del generale Karl Wolff, comandante delle SS e della polizia tedesca in Italia, nella caserma di Gries (Bolzano). Il Primo e il Secondo battaglione dei Bozen furono impiegati nell’Alpenvorland e nella zona di operazioni adriatica anche in sanguinose azioni contro la Resistenza e la popolazione civile. Il Terzo battaglione Bozen fu trasferito a Roma il 12 febbraio 1944 a bordo di autobus della Società autotrasporti delle Dolomiti (Sad). Fu un viaggio lungo e pericoloso che durò una settimana. Il convoglio si muoveva soltanto di notte per evitare i bombardamenti aerei su strade spesso dissestate.

Si trattava di soldati già addestrati all’uso delle armi leggere, comandati da ufficiali e sottufficiali tedeschi. Gli altoatesini occupavano i gradi più bassi della gerarchia militare. Erano volontari? Ufficialmente no, perché il Gauleiter Hofer aveva ottenuto che le reclute dell’Alpenvorland non fossero considerate tali, ma sui documenti di arruolamento spesso si dichiarava la volontarietà. Bisogna considerare che il rifiuto comportava l’arresto e anche ritorsioni contro i famigliari.

Erano SS? Il Reichsführer Heinrich Himmler, capo delle SS e della polizia, il 24 febbraio 1943 aveva stabilito di rinominare tutti i reggimenti di polizia come SS-Polizeiregiment. Ma per gli altoatesini vigeva una sorta di autonomia, sicché il battaglione Bozen venne battezzato come SS-Polizeiregiment Bozen soltanto con un decreto del 16 aprile 1944, cioè quasi un mese dopo l’attentato di via Rasella. Da quel momento ai soldati venne ritirato il vecchio libretto paga e restituito con l’intestazione delle SS. Ciascun reggimento dei Polizeiregiment era diviso in battaglioni e questi in compagnie, con numerazione progressiva. Ogni compagnia era suddivisa in plotoni. L’ordigno di via Rasella colpì soprattutto il Secondo e Terzo plotone, quelli centrali, mentre il Primo e il Quarto uscirono presso ché indenni dall’attacco partigiano. I 156 dell’Undicesima compagnia che marciavano per le vie di Roma nel primo pomeriggio del 23 marzo 1944 erano già stati addestrati per tre mesi a Colle Isarco e quel giorno avevano concluso un corso supplementare prima di sostituire i camerati della Decima compagnia nel servizio di sorveglianza dei punti strategici a Roma. L’avvicendamento era previsto per il giorno seguente. La loro paga era di 12,5 lire al giorno, due lire e mezzo in più della retribuzione spettante ai soldati della Wehrmacht. Un decreto del 6 gennaio 1944 aveva richiamato alle armi tutti i residenti maschi dell’Alpenvorland delle classi di età dal 1894 al 1926, compresi coloro che avevano optato per la cittadinanza italiana, chiamati Dableiber (i restanti). Tra i soldati del Bozen c’erano ultraquarantenni sposati e con figli e scapoli tra i venti e i trent’anni. Analizzando la lista dei caduti si scopre che il più giovane, Franz Niederstaetter, era nato il primo giugno 1917 ad Aldino, in provincia di Bolzano, quindi aveva ventisei anni compiuti, e il più vecchio, Jakob Erlacher, era nato a Marebbe nel luglio 1901, quindi ne aveva ancora quarantadue. A parte qualche eccezione, nella vasta letteratura su via Rasella e le Fosse Ardeatine si dedicano poche righe agli uomini del battaglione Bozen. (...) Ma oggi la storia dei Bozen è consultabile da tutti nell’ottima voce di Wikipedia che cita la letteratura sull’argomento. Ciò non ha impedito che continuino a circolare le leggende più astruse sul Terzo battaglione Bozen. Per esempio quella che fosse composto da attempati e inoffensivi componenti di una banda musicale, come ha detto con infelice battuta il presidente del Senato Ignazio La Russa in un’intervista a «Libero» del marzo 2023. In realtà il Terzo battaglione Bozen ebbe compiti di sorveglianza dei presidi militari dentro e fuori Roma. La Nona compagnia fu dislocata ad Albano Laziale, la Decima impiegata per la sorveglianza in centro e l’Undicesima era di riserva.

Le voci dei Bozen nell’inchiesta di Umberto Gandini

Non si trattava di una banda musicale e non erano soldati inoffensivi, ma quel 23 marzo marciavano con il colpo in canna, come ha raccontato un sopravvissuto dell’Undicesima compagnia, Franz Bertagnoll, pronti a reagire a eventuali attacchi partigiani, che i comandi nazisti avevano messo in conto. Il 23 marzo 1944, venticinquesimo anniversario della fondazione dei Fasci di combattimento, il pericolo era nell’aria. Lo hanno raccontato i sopravvissuti della compagnia di altoatesini decimata a un giornalista dell’«Alto Adige», Umberto Gandini, che dal 24 al 29 settembre 1977, poco più di un mese dopo la clamorosa fuga di Herbert Kappler dall’ospedale militare del Celio, condusse nelle valli sudtirolesi una straordinaria inchiesta tra i reduci del Terzo battaglione Bozen, e in particolare tra i sopravvissuti dell’Undicesima compagnia. Si tratta di quattro medaglioni, che costituiscono un esemplare reportage poi raccolto in fascicolo nel gennaio 1979 sotto il titolo Quelli di via Rasella, con introduzione del direttore Gianni Faustini. Il racconto di Gandini ci restituisce un punto di vista qualche volta scomodo, ma vivo e originale. Ritorniamo al «no» dei Bozen, alla richiesta del maggiore Dobek. Come giustificarono il loro rifiuto a vendicare un attacco che era costato trentatré morti e cinquantacinque feriti gravi e che aveva più che dimezzato gli effettivi dell’Undicesima compagnia?

I soldati delle altre due compagnie, la Nona e la Decima, cui si era rivolto Dobek, che era di origini boeme, avevano detto di essere «cristiani battezzati», «troppo cattolici», cioè veri credenti, per accettare di uccidere ostaggi inermi. Alcuni sottufficiali spiegarono al maggiore che «quegli uomini non avevano mai sparato contro altri uomini nemmeno in battaglia. È escluso e impossibile pretendere che ora si mettano a fucilare ostaggi inermi». «Gli ufficiali, tutti tedeschi di Germania o d’Austria, non si fidavano di noi» raccontò Josef Prader, classe 1903, falegname di Bressanone. «Forse perché eravamo troppo poco “bruni”, cioè nazisti, ma soprattutto sudtirolesi. I tedeschi, quelli di fuori, mi stanno sullo stomaco ancora oggi, se penso a tutto quello che mi hanno fatto passare. Sono stato, per diversi anni, soldato italiano, nell’Ottantaquattresimo reggimento di fanteria “Bolzano”, a Firenze e a Tripoli, nel ’23 e nel ’24. E poi per altri tre mesi nel ’39 a Chieti. Gli italiani mi hanno rilasciato un diploma sul quale è scritto che ho servito “con onore e fedeltà”. Dai tedeschi mi sono preso solo insulti e pedate nel sedere. Se per ipotesi dovessero oggi chiedermi di tornare a fare il soldato e di scegliermi la divisa, non avrei un attimo di dubbio: farei il soldato italiano. Non perché mi senta italiano, ma perché ci sono cose che non si dimenticano.» Dai documenti risulta che Prader era partito volontario: «Ci fecero firmare cartellini sui quali era scritto che eravamo volontari. Io dissi che se volevano potevano anche arruolarmi, ma non come volontario. Mi risposero che mi avrebbero definito come pareva e piaceva a loro, e che se facevo tante storie sarei finito in Russia. Ecco come eravamo volontari...». Il falegname di Bressanone non era l’unico ad aver servito nell’esercito italiano. Lo avevano fatto altri, come Peter Putzer di Varna, artigliere da montagna a Merano e Rovereto, o Josef Praxmarer, di San Giacomo di Bolzano, che fu fante a Torino. O ancora come Luis Kaufmann, di Nova Levante, geniere a Casale Monferrato, che ebbe il fratello Johann ucciso in via Rasella. Molti degli intervistati da Gandini, oltre al trauma di via Rasella e alla fame patita (le razioni erano scarse anche per la truppa occupante), ricordano gli insulti e le umiliazioni subite dagli ufficiali. Ce n’era uno in particolare, il tenente Walter Wolgasth, di Amburgo, soprannominato «tuttogas», comandante di compagnia, che li chiamava «teste di legno tirolesi», «traditori», «maiali», «bastardi», quando era gentile ironizzava sul tedesco poco fluente dei soldati di origine ladina e sulla scarsa disciplina di quel gruppo di contadini che faticavano a tenere un passo marziale. Il tenente Wolgasth cadde in un agguato nel maggio 1945. Secondo alcune versioni fu ucciso dai partigiani, altre voci dicono che fu eliminato da uno dei suoi sottoposti. Anche il maggiore Dobek, che fu ucciso dai partigiani nel luglio 1944 mentre cercava riparo in Svizzera, non lesinava gli insulti. Ricordava Franz Bertagnoll, residente vicino al lago di Caldaro, di avergli sentito dire: «Siete del sessanta per cento peggiori del peggiore degli italiani».













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