Alban, le due facce di una carriera

Nove stagioni nel Bolzano rifiutando di emigrare verso club più prestigiosi. E il grave ferimento nella sparatoria al night


di Gianni Dalla Costa


BOLZANO. In campo di botte ne ha prese, e tante. Quella sua capacità di nascondere la palla, quel dribbling stretto che ti metteva a sedere, quell’essere presente in ogni zona del campo, faceva irretire gli avversari. Che andavano giù duri. Ma è fuori dal campo che Piero Alban, bolzanino di nascita (oggi ha 66 anni) e icona del calcio cittadino, ha rischiato di più. Con l’intestino perforato in tre punti da un proiettile calibro 22, con la vita appesa all’esito di un doppio intervento chirurgico. Un’immagine a due facce, quella di Alban: una legata alle nove stagioni fra serie C e D con la maglia del Bolzano, l’altra a quella sera del gennaio 1972 all’interno del night Joker Club di via Resia. Coinvolto suo malgrado in una sparatoria in cui rimase ucciso un cameriere del locale.

Alban, un calciatore professionista ferito in un night nel cuore della notte. Una sorta di bestemmia per il calcio di allora...

«Sì, lo so. E infatti quell’immagine distorta mi ha accompagnato per parecchio tempo. A me poi non piaceva andare nemmeno in discoteca. Le cose sono andate diversamente».

Sarebbe?

«In quel periodo ero fermo, con un piede ingessato. Ero stato a Caldaro a rappresentare la società del Bolzano alla festa dello sportivo. Abitando in via Resia, nel ritorno mi sono fermato con l’amico Gianni Costa in questo locale a due passi da casa per bere qualcosa. Non ero certo un habitué del night».

E che le è successo?

«Oltre alla tragedia del cameriere ucciso, ci fu una serie di colpi sparati all’impazzata. Inizialmente, ho sentito solo un po’ di bruciore a un gluteo. Col trascorre delle ore poi la situazione si è aggravata. Il sangue zampillava. In due giorni sono stato operato due volte. Sì, me la sono vista proprio brutta. Ci sono voluti quasi tre mesi per recuperare».

La carriera ne ha risentito?

«Sinceramente no, il recupero è stato totale. Ma ho dovuto dimostrarlo, la società voleva vederci chiaro».

In che modo?

«A distanza di tempo ho capito il significato di quella amichevole post-campionato giocata a Monaco. Di solito a fine torneo c’era il “rompete le righe”, quell’anno invece ci fu un’ulteriore partita. Organizzata appositamente per me, per vedere se valeva la pena rinnovarmi ancora il contratto o se ero un giocatore finito».

Come andò?

«Con mister Agostinelli che a fine partita mi abbracciò commosso. Facevo ancora parte del Bolzano. Che grande allenatore che è stato. Il migliore. Con lui una volta litigai di brutto. Sapeva che ero legato al numero 8, mi fece uno scherzo e mi diede la maglia con un altro numero. Voleva farmi arrabbiare e ci riuscì. Un grande».

E il peggiore?

«Con De Grandi ho legato davvero poco. Forse perchè era il periodo del Bolzano dei “bresciani”, forse perchè lavoravo e mi allenavo un po’ meno degli altri, forse perchè avevamo una diversa visione dei rapporti fra le persone. Ricordo poi con piacere i vari Torresani, Lenzi, il brasiliano Augustine. E i vari tecnici della Virtus Don Bosco, la società che mi ha svezzato e con la quale ho avuto una delle più belle sodisfazioni, la partecipazione alla finale italiana del campionato juniores».

Dicono che lei fosse il coccolo di ogni allenatore?

«In effetto ero il giocatore che ogni mister avrebbe voluto. Uno dal lavoro oscuro ma indispensabile».

A proposito di lavoro, lei è stato un calciatore part time...

«Cosa credete? Io ero uno previdente. Ricordo che i contratti si firmavano sempre durante il ritiro estivo. Regolarmente ero l’ultimo a farlo. Pensavo spesso: che faccio quando smetto? E alla società dissi: basta contratti, datemi un lavoro. Ricordo che feci impazzire l’allora presidente Pasquali».

Gusti difficili?

«Come impieghi rifiutai quello di produttore in una casa automobilistica e di casellante in autostrada. Accettai un impiego all’Azienda elettrica, mi occupavo delle situazioni di morosità e dell’eventuale “taglio” dei fili».

Sempre e solo Bolzano?

«Sì, nove stagioni, tre in serie C e sei in D, due campionati vinti e due retrocessioni. Ehi, ma quanta gente c’era allora al Druso? Ricordo sempre i sentiti derby con l’Oltrisarco. In porta c’era il povero Bizzotto, la sua recente scomparsa mi ha parecchio addolorato. Era difficilissimo fargli gol».

Mai sfiorato il grande calcio?

«Certo, ad ogni stagione un provino. Con esiti positivi. Pro Vercelli, Como, Pro Sesto, Torino. Ma io tornavo a Bolzano e dicevo sempre: guardate che io di qua non mi muovo. A Bolzano stavo troppo bene. Forse è vero: la natura mi ha dato tutto per fare il calciatore ma non la testa. Non ho mai messo il calcio al primo posto dei miei pensieri, anche se ho giocato fra i dilettanti fino a 45 anni».

Men che meno oggi...

«E infatti alleno alla Scuola Calcio della Stella Azzurra, ragazzini dai 6 ai 13 anni. Due volte la settimana, niente sabati o domeniche. Quelli sono dedicati a mia moglie Lea, mia figlia Martina e al nipotino Andrea di 18 mesi».

E pensare che sarebbe stato un ottimo allenatore...

«Ho guidato gli esordienti della Virtus, due anni di sole vittorie, due stagioni in Eccellenza, campionati di Terza vinti con Bozner e Magrè. E non dimentico l’avventura con la Mobilcasa: dalla Terza categoria alla Prima in due stagioni. Una scommessa vinta».

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