l’intervista

Alex Schwazer: «Ho subito un’ingiustizia ma non è impossibile trovare il colpevole»

“Andrò alla Corte europea dei diritti dell'uomo, è una questione di principio. Di media per andare a giudizio servono cinque anni, la mia squalifica sarà già terminata ma io voglio una sola cosa: essere innocente su tutti i fronti”


di Marco Marangoni


VIPITENO. «Non è impossibile trovare il colpevole ma il problema è la tempistica, ormai sono trascorsi quasi sei anni. Serve trovare ulteriori e-mail, servono messaggi e comunicazioni come quelli hackerati dai russi l’anno dopo. Solo così si potrà arrivare ai colpevoli: non credo qualcuno confesserà. Quello è un circuito chiuso: se parli sei fuori per sempre. Ad esempio, se un tecnico del laboratorio di Colonia dovesse parlare è poco ma sicuro che non lavorerebbe più».

Alex Schwazer non si ferma, non si piega a nessuno, nemmeno alle grandi istituzioni sportive, vuole andare avanti, andrà fino alla Corte europea dei diritti dell'uomo ma soprattutto vuole arrivare al regista del grande imbroglio, di una vile imboscata.

La vicenda Schwazer ha spaccato l’opinione pubblica, ha distrutto rapporti. Ora, con la sentenza del Tribunale di Bolzano, è chiaro: le urine del controllo antidoping dell’1 gennaio 2016 sono state alterate artificialmente per farle diventare positive al doping.

Terribile e incredibile per una vicenda che, come dice il paladino della lotta al doping ed allenatore di Alex, Sandro Donati, «mette a nudo il sistema sportivo corrotto».

Alex non si accontenta dell’importante e preziosa sentenza del coraggioso giudice bolzanino, Walter Pelino che in articolate 87 pagine di motivazioni non ha solo scagionato il marciatore scrivendo che “la positività al doping emersa dal controllo dell’1 gennaio 2016 non sussisteva” ma senza precedenti e con dovizia di particolari ha inflitto una pesante accusa al “sistema autoreferenziale da parte di Wada e Iaaf (oggi World Athletics, ndr) che non tollerano affatto controlli dall’esterno e pronte a tutto per impedirlo, al punto da produrre dichiarazioni false e porre in essere frodi processuali”.

«Serve acquisire informazioni informatiche di vari soggetti, speriamo si riuscirà», precisa in questa intervista in esclusiva al giornale "Alto Adige” il campione olimpico della 50 km di marcia a Pechino 2008 che assieme alla famiglia vive a Stanghe. E che ha pubblicato il libro autobiografia “Dopo il traguardo” edito da Feltrinelli (224 pagine – 16 Euro).

Lei non è un diavolo ma neppure un angelo, ha ammesso il doping, lo ha comprato in Turchia ma è stato anche ingannato. Il suo libro è un messaggio per tutti come rialzarsi da momenti difficili, una storia di cadute e di redenzioni, di rinunce e di rinascite?

Certo, è proprio così perché io ho subito una grande ingiustizia. Questo libro è un resoconto sincero, schietto, fedele di ciò che mi è capitato. Volevo scrivere la storia di una persona e non di uno sportivo ma soprattutto volevo rivelare fatti ed episodi che in pochissimi sanno e che hanno caratterizzato la mia carriera. Parlo delle difficoltà della mia infanzia ma anche della mia storia molto semplice.

La sua vicenda che ha riempito pagine di giornali e riviste, occupato spazi televisivi importanti con la sua manager Giulia Mancini pronta a cogliere il momento giusto, parliamo di Alex papà, di Alex marito: il doping possiamo lasciarlo una volta piano. Le storie d’amore attirano sempre il grande pubblico. Cosa è stata per lei Kathrin da quel maledetto 21 giugno 2016, quando è arrivata la notizia della seconda positività?

Faccio un passo indietro. Con Kathy ci conoscevamo di vista, lei ad ottobre 2015 mi ha scritto e abbiamo iniziato a frequentarci. Tenendo presente che lei non frequentava il mondo dello sport non mi ha mai fatto pesare la situazione nemmeno quando all’inizio del nostro rapporto mi dividevo tra l’Alto Adige e Roma. L’estate del 2016 è stata difficilissima. Io nella bufera, lei che ai primi di luglio mi ha mostrato il test di gravidanza ed era incinta di Ida (nascerà il 9 marzo dell’anno successivo e Noah il 16 novembre dello scorso anno, ndr) e quindi dovevo supportarla.

Ci dice il momento più brutto?

Tanti per non dire troppi ma non ho mai pensato ad un gesto estremo, apprezzo troppo la vita. Il giorno dopo la squalifica a Rio de Janeiro per recarci all’aeroporto e rientrare in Italia abbiamo attraverso il percorso di gara: ecco è stato bruttissimo anche perché mi sentivo il più forte di tutti. Nella vita mi sono sentito un pescatore che pesca in acque non limpide, non vedevo nulla. Sono sempre andato avanti consapevole di non avere i mezzi della controparte (World Athletics e Wada, ndr)».

Nel libro racconta la sua infanzia. Perché la marcia e non, ad esempio lo slittino, essendo Walter Brunner fratello di sua madre, oppure l’hockey che in Alto Adige è “sport nazionale”?

L’hockey è stata la grande passione da bambino ma ho smesso perché i miei genitori non avevano le capacità finanziarie per farmi andare a giocare all’esterno. Mio papà era convinto che scegliessi l’hockey ma andare in Canada o nei Paesi scandinavi costava parecchi soldi. Nel 1999 a Bressanone la mia prima gara di marcia: la fase provinciale dei Giochi della Gioventù.

Ritorniamo al doping: non crede che quanto accaduto sia provocato da comportamenti passati del suo allenatore?

Temo proprio di sì, lo abbiamo detto cinque anni fa e lo dico sempre più convinzione adesso.

Con i russi, che le hanno offerto doping a volontà, ha più avuto contatti?

Assolutamente no anche perché con le mie deposizioni, la Russia ha avuto problemi a livello internazionale.

Quali saranno i prossimi passi?

Stiamo valutando ma andrò alla Corte europea dei diritti dell'uomo, è una questione di principio. Di media per andare a giudizio servono cinque anni, la mia squalifica sarà già terminata ma io voglio una sola cosa: essere innocente su tutti i fronti.













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