Anima, cuore e classe dell’Angelo Biondo che rivoluzionò i tuffi

Bolzano. Per descriverlo gli aggettivi sono tutti superati perché Klaus Dibiasi è Klaus Dibiasi. Superlativo, fuoriclasse, perfetto, tenace, preciso, l’“Angelo Biondo” è semplicemente Klaus, colui...



Bolzano. Per descriverlo gli aggettivi sono tutti superati perché Klaus Dibiasi è Klaus Dibiasi. Superlativo, fuoriclasse, perfetto, tenace, preciso, l’“Angelo Biondo” è semplicemente Klaus, colui che ha rivoluzionato uno sport: i tuffi. Nato in Tirolo all’epoca delle “Opzioni”, sin da bambino residente a Bolzano prima di trasferirsi dopo il ritiro a Roma, Klaus Dibiasi è stato il più grande tuffatore di tutti i tempi prima dell’avvento dei cinesi, “fotocopiatrici di tuffi” senza anima che monopolizzano i podi internazionali da poco più di vent’anni. Klaus aveva anima, cuore e classe e dominava il mondo scrivendo con le sue indimenticabili imprese la storia dello sport italiano.

Ancora oggi Dibiasi è l’unico tuffatore al mondo ad aver vinto tre ori olimpici consecutivi nella stessa specialità, la spettacolare piattaforma. Da Città del Messico 1968 a Montreal 1976 passando per Monaco di Baviera 1972 (nel ‘64 a Tokyo ci fu l’argento sempre dalla piattaforma) per un primato tutto dorato che nello sport azzurro condivide solo con la fiorettista Valentina Vezzali, la più grande della scherma mondiale.

Klaus è figlio di uno dei pionieri dei tuffi nel Vecchio Continente. Il papà Carlo (o Karl, dipende quale epoca storica consideriamo avendo lui optato nel ‘40 per emigrare in Tirolo) è stato autodidatta, ha partecipato ai Giochi del 1936 a Berlino ed è stato costruttore e collaudatore di tavole per i trampolini marchiati “PraDi” (Prantner - Dibiasi) fornendole a piscine di mezza Europa.

La vera curiosità sta nel cognome che ancor oggi si rischia di trovare erroneamente scritto staccato (Di Biasi). Lo stemma araldico di famiglia era, infatti, una tibia, la cui dizione Tibianus è stata ben presto modificata in Dibiasi. Padre e figlio hanno addirittura gareggiato assieme per due stagioni e gli Italiani del 1963 a Roma coincisero con l’ultima apparizione di Karl e la prima vincente di Klaus dal trampolino. Nella bacheca ci sono anche due ori iridati (Belgrado ‘73 e Calì ‘75) ed altrettanti europei (Utrecht ‘66 e Vienna ‘74), tutti dai dieci metri.

Giorgio Cagnotto, compagno di allenamento, irriducibile rivale e amico, disse: «I tuffi prima di lui erano un’altra cosa. Klaus li ha cambiati, come i Beatles hanno cambiato la musica».

A 56 anni dall’esordio olimpico, il tuffatore bolzanino ricorda le emozioni vissute alla piscina Yoyogi della capitale, l’impianto che ai Giochi del prossimo anno non ospiterà le gare di nuoto e tuffi bensì le partite del torneo di pallamano.

«Era tutto nuovo, ero alla prima Olimpiade, avevo compiuto 17 anni proprio durante i Giochi. Il viaggio era stato eterno con due-tre scali. Siamo rimasti letteralmente a bocca aperta, non avevamo mai visto una piscina così grande. All’interno del Villaggio Olimpico che sorgeva su un ex campo dell’esercito americano ci spostavamo in bicicletta e per poterla utilizzare anche il giorno dopo la sera la portavamo in stanza. La sera e di notte si avvertivano piccole scosse di terremoto. A un certo punto, dopo sette tuffi (la gara si svolgeva su tre giorni, ndr), mi sono detto, “se crolla la piscina, sono comunque primo”. Pensare che dopo due salti ero solo diciassettesimo, è stata un’escalation».

Legato a Tokyo c’è un curioso aneddoto, quello di papà Carlo accreditato come atleta. Lo può raccontare?

«Oggi è una cosa buffa che non sarebbe ammessa. L’allora segretario generale del Coni Mario Saini decise di convocare mio papà come atleta: era un escamotage per poter seguire da vicino me e Cagnotto. Mio papà, allora cinquantacinquenne, era iscritto alla gara della piattaforma, all’ultimo momento si è ritirato ed è rimasto sul bordo vasca».

Quattro Olimpiadi, altrettante medaglie, quale significato?

«L’argento di Tokyo per me è stato come vincere l’oro. Città del Messico è stata l’ultima Olimpiade dove c’era ancora calore umano, dove la sportività era molto alta. Monaco di Baviera è stata quella della pressione con i giornali che titolavano “Dibiasi medaglia sicura” con l’oro arrivato nonostante l’errore nell’ultimo tuffo. È stata l’Olimpiade dell’attentato che ha cambiato ulteriormente il clima. Montreal la più difficile».

Perché la più difficile?

«Da tanto avevo male al tendine d’Achille, ormai a pezzi, i medici mi chiesero se fossi stato in grado di sfilare per meno di un giro di pista con il tricolore alla cerimonia d’apertura (ricorda Dibiasi già direttore tecnico azzurro e consigliere federale, dal 1999 membro della commissione tecnica della federazione europea e dal 2013 anche nei quadri della Fina , ndr). Per la prova dai tre metri mi era stato somministrato cortisone ha aveva influito negativamente sui riflessi. In vista della gara dalla piattaforma, alla quale stavo pensando di non partecipare, per giorni interni sono rimasto ai bordi della vasca per una sorta di allenamento ideomotorio osservando i miei avversari. È stata l’Olimpiade del duello con l’astro nascente Greg Louganis. Alla fine l'esperienza è stata dalla mia parte. Lui ha sbagliato il triplo salto mortale e mezzo avanti carpiato, io ho fatto la differenza con lo stesso tuffo anche se in posizione raggruppata. Questa è stata la vittoria più bella, più sofferta della mia carriera con tanto di record del mondo (600,51 punti)».

Suo papà era nel panel dei giudici della sua gara olimpica di Città del Messico, poi venne dirottato alla gara femminile. Cos’era accaduto?

«Altra simpatica curiosità. La Federnuoto aveva designato come giudice italiano delle due gare maschili mio papà essendo tecnico federale. La scelta non passò inosservata. A quel punto mio padre, che comunque poteva giudicare un connazionale ma non il figlio, è stato dirottato al trampolino femminile».

Quest’anno il Grand Prix di Bolzano non si svolgerà nella data prefissata e rischia di essere annullato causa il coronavirus, come vede la stagione?

«Temo che la stagione per il nostro mondo dei tuffi sia fortemente compromessa. Per un tuffatore restare fuori dall’acqua non è così grave come per un nuotatore ma è comunque difficile. Emergerà una differenza, il vero campione si adatta, il perdente è quello che si lamenta e accampa scuse».















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