Fuschini, il Barone dal tunnel facile

Calciatore dalle giocate imprevedibili e allenatore dai modi gentili. «Almeno per un po’ di tempo lascio il calcio»


di Gianni Dalla Costa


BOLZANO. Per dirla alla De Gregori: un giocatore si vede dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia. E allora Roberto Fuschini, classe 1974 di Bressanone, è stato un ottimo giocatore. Coraggioso nel lasciare, giovanissimo, casa e famiglia per cercar “fortuna” su campi più prestigiosi; generoso in campo e fuori, se è vero, come vedremo, che ancora oggi conserva numerosi amici nell’ambiente; fantasioso perchè uno che gioca con il 10 sulle spalle, si permette di fare tunnel a gente di serie A come Thern della Roma, salta in triplo passo Stovini del Lecce, che altro può essere? Ecco perchè da domenica scorsa il calcio di casa nostra è un po’ più povero. La pausa («rigenerante», la definisce lui) che Fuschini ha deciso di prendersi è una perdita non solo per il Brixen, la società che ha allenato negli ultimi quattro anni.

Fuschini, più addio o arrivederci?

«Diciamo che in questo momento ho bisogno di staccare per un po’. Sento che non riuscirei a trasmettere quell’entusiasmo di cui invece una squadra di dilettanti, magari molto giovane, ha bisogno».

Divergenze con la società, diatribe con i giocatori o...?

«No no, nulla di tutto questo. E’ che quest’ultimo anno è stato terribile. Ho assistito mio padre Gabriele 24 ore al giorno, la sua morte mi ha lasciato il segno a livello nervoso».

Non teme, fermandosi, di finire nel dimenticatoio?

«Non credo. Tra l’altro, ho ricevuto già delle offerte da club di Eccellenza e Promozione. E pure per la squadra “Berretti” dell’Alto Adige. Ma in questo momento non me la sento».

Calcisticamente, suo padre ha rappresentato molto per lei?

«Sì, parecchio. Era il mio critico più severo. Ma mi seguiva dappertutto. L’avessi ascoltato, quella volta, chissà...»

Sarebbe?

«Quando dalla Primavera del Verona sono tornato al Trento, in C2. Lui non fu mai d’accordo. E aveva ragione».

Perchè?

«Quella parentesi credo abbia segnato la mia carriera».

Ce la illustri....

«Come per tutti i ragazzini, è iniziata prestissimo. Cuccioli ed esordienti nell’Ac Bressanone, poi a 14 anni Umberto Principe, un tecnico che ha sempre creduto in me, mi porta al Trento. Allievi nazionali, con mister Codognato. Me la cavo bene, con entrambi i piedi. Finisco alla Primavera del Verona».

E cominciano i sogni, vero?

«L’allenatore è nientemeno che Mariolino Corso, e mi vede benissimo. Qualche apparizione anche in prima squadra. Su un quotidiano sportivo nazionale appare un titolo: “I gioielli di Corso” riferendosi a Guardalben, Pivotto, Tommasi e al sottoscritto. Sì certo, si comincia a volare».

E chi l’ha riportata con i piedi per terra?

«Succede che il Trento, in C2, mi rivuole per sostituire un giocatore cacciato. Il Verona mi convince: vai, ti serve per fare esperienza, poi torni. A mio padre l’idea non andò mai giù».

L’esperienza l’ha fatta ma brutta, ci pare...

«Con Sergio Buso, l’allenatore, gioco poco, quasi niente. Ma forse anch’io ci ho messo del mio. Dovevo reagire, dare ancora di più in allenamento, mostrare più carattere. Invece andavo a sfogarmi in discoteca. A Verona ho visto ragazzi con meno talento che hanno fatto una bella carriera. Questione di testa».

Pensato di mollare?

«Il ritorno tra i dilettanti, prima Chiusa e poi Vipiteno, al giocare per hobby, è stato inizialmente una liberazione. Col tempo, invece, una sofferenza. Non era quello il calcio che intendevo io. Avevo 23 anni e sì, ho pensato di smettere. Per fortuna c’è stata la parentesi in serie D col Bolzano».

Quella che l’ha eletta al rango di “Barone”?

«Ah, lo sa anche lei? Sì, è vero, a Bolzano nell’ambiente mi chiamano così».

Perchè?

«Perchè arrivavo agli allenamenti in “divisa” da bancario, giacca e cravatta. E per quel triplo passo con cui, nell’amichevole Bolzano-Lecce, saltai Stovini. Peccato solo che il tiro conclusivo fu a “straccio bagnato”. Ma al rientro negli spogliatoi da allora diventai per tutti il Barone».

Ma fece anche un “numero” contro la Roma...

«Un tunnel, la mia passione, il modo più elegante di saltare un avversario. Quella volta fu Thern. Io stravedo per i tunnel. Per scherzo a mio padre ne feci 8 consecutivi. Immortalati in un video di Principe».

A proposito di numeri 10, ha avuto anche Baggio come avversario...

«Sì, in Brixen-Brescia. Ragazzi, che giocate! E che persona. Si rivolgeva ai compagni sempre con grande umilta e disponibilità. Come Cannavaro».

Chi, il Pallone d’Oro?

«Già, era in stanza con me al Car di Avellino prima di venire entrambi trasferiti alla Compagnia atleti di Bologna. Giocava già in serie A nel Napoli ma non lo faceva pesare. Era l’unico che a quel tempo possedeva un cellulare. E sa cosa fece? Una volta lo prestò a un ragazzo di colore che gli spese un patrimonio telefonando per quasi un’ora in Africa».

Quanto le mancano i suoi tunnel?

«Spero di riuscire a farne qualcuno molto presto. Magari il primo giugno al Druso quando ritroverò tutti i miei ex compagni. Ne arriveranno più di 100, anche Damiano Tommasi che non vedo da anni ha accettato con entusiasmo. Dovevamo fare una partita per celebrare il mio addio al calcio giocato, ne verrà fuori invece un torneo. Con cui voglio anche ricordare mio padre: verranno raccolti fondi per l’Airc, la ricerca sul cancro».

Come saranno le domeniche di Fuschini ora, senza pallone?

«Beh, potrò giocare a tennis, che ho sempre trascurato. Oppure tornare a sciare. Ma soprattutto saranno dedicate alla mia compagna Morena e alle mie bambine Valentina di 5 e Arianna di 3 anni».

Tutte contente, immagino...

«Morena è la compagna ideale. Mi ha conosciuto da giocatore e mi ha sempre sostenuto, anche dopo come allenatore. E adesso che sono in “pausa”, m’ha detto di fare come mi sento. Fortunato, vero?».

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