Zadra, profeta del corpo a corpo

Cortaccia. Sette titoli mondiali nel semi-contact, più uno a squadre; una seconda giovinezza nel taekwondo e anche una carriera sfiorata da attore negli Stati Uniti. Markus Zadra, 55 anni, di...



Cortaccia. Sette titoli mondiali nel semi-contact, più uno a squadre; una seconda giovinezza nel taekwondo e anche una carriera sfiorata da attore negli Stati Uniti. Markus Zadra, 55 anni, di Cortaccia, è stato una stella della kickboxing negli anni Novanta. Una carriera proseguita poi nel mondo del taekwondo, da allenatore dell'Asd Zadra Fighting/Rothoblaas e come delegato regionale Fita. Negli ultimi anni si è rimesso in gioco anche come atleta, in una disciplina che ha visto brillare i figli Emanuel, che al momento si è fermato per motivi di studio, e il più giovane Alexander, che - nonostante sia ancora in età da Junior - sta iniziando a brillare anche tra i Senior.

Markus, come sta attraversando questo momento di emergenza sanitaria?

«In tutta questa negatività, cerco di vedere il lato positivo. Riusciamo a ricavare del tempo per fare tutte quelle cose che prima magari avevamo accantonato, cose anche semplici, come sistemare l'ufficio, ad esempio. Per partecipare alle gare, siamo via praticamente ogni fine settimana, mentre adesso possiamo respirare e soprattutto sono a casa con entrambi i miei figli. Emanuel (il più grande, ndr) è sempre via perché studia matematica a Vienna, mentre ora è rientrato a Cortaccia».

A causa dell'emergenza sanitaria naturalmente anche la vostra attività è sospesa.

«Sì. Per fortuna tra settembre e fine febbraio abbiamo partecipato a tutte le gare in programma, tra competizioni interregionali, nazionali e internazionali. Proprio a fine febbraio siamo atterrati a Milano, dopo dieci giorni in Svezia, e abbiamo trovato un gran casino!»

Come è andata in Svezia?

«Abbiamo partecipato prima alla President's Cup, un G2, e poi alla Coppa del Mondo G1. Ci siamo presentati per fare punti per il ranking olimpico. Alexander nel 2019 ha vinto tre gare di Coppa del Mondo, ma nella categoria Junior e Cadetti, che non danno punti. La vita sportiva, di fatto, comincia tra i Senior e tra queste categorie c'è un abisso. Nelle prime gare tra i “grandi”, Alexander si è comportato molto bene, proprio come aveva fatto a dicembre agli Italiani. In quell'occasione era arrivato terzo, un risultato incredibile per un atleta Junior. Mi ha proprio stupito. Era appena tornato dal Messico, dove ha potuto lavorare con Israel Briones Vazquez, ex allenatore della nazionale messicana, che con la famiglia (la moglie è trentina, ndr) vive a Spiazzo. È una persona eccezionale, molto umile. Ha quattro figli, che praticano anche loro taekwondo. Ha visto il potenziale di Alexander e lo ha portato due settimane in Messico. Si è allenato con atleti che hanno vinto medaglie mondiali e olimpiche ed è tornato con un atteggiamento diverso».

Come lo ha visto?

«Gli allenamenti erano molto duri e ha imparato ad arrangiarsi perché lì o ti arrangi o le prendi. E lui ha fatto “click”, è cambiato. Sono andato a prenderlo a Roma e ci siamo recati a Napoli per gli Italiani Senior. Durante il primo incontro si è infortunato, ha comunque vinto, e ha deciso di andare avanti. Non mi aspettavo questa sua decisione. Non si reggeva in piedi, ma si vedeva che era cresciuto a livello mentale. Nonostante le condizioni precarie ha vinto anche il secondo match, guadagnandosi un posto sul podio. In semifinale, invece, ha dovuto proprio rinunciare per infortunio. In Svezia, invece, nel G2 ha avuto un po' di sfortuna, perché ha preso subito il numero 36 al mondo, però se l'è giocata. Il capolavoro lo ha fatto nel G1, quando ha affrontato un atleta della nazionale azera, tra i più esperti della categoria. Ha perso le prime due riprese, ma ha vinto la terza. Si è comportato molto bene. Invece io ho partecipato nella categoria Master, vincendo l'oro sia nel G1 che nel G2».

Si rivede un po' in Alexander?

«Nel fisico. E adesso vedo che si sta allenando proprio come facevo io. Per il resto siamo un po' diversi, ma neanche così tanto. A livello di testa, però, Emanuel, il più grande, mi assomiglia di più. Non ha paura di niente».

Emanuel combatte ancora?

«Si allena, è sempre un terzo Dan di taekwondo, inoltre è stato il primo atleta della regione a vincere una medaglia agli Italiani, nella categoria Cadetti, e un'altra, d'argento, in Coppa del Mondo. Però ha deciso di fare una vita diversa. Studia, ed è giusto così. È sempre stato un atleta di ottimo livello, ma deve seguire la sua strada, che è lo studio. Per me non è stato così. Alexander, che a luglio compie 18 anni, invece, in questo è più simile al papà (risata, ndr)».

Quando è iniziato il suo percorso nelle arti marziali?

«Sono stato ispirato dai primi film di kung fu, quando avevo 7 anni. Per me era qualcosa di misterioso. Ho avuto i primi contatti a Merano, in collegio, durante le scuole medie, allenandomi in privato con un ragazzo che faceva karate. Alle superiori ho cominciato con il karate in palestra, per due anni a Ora. Poi ho scoperto la kickboxing, con tutto il suo fascino. E così nel 1982 sono passato dal karate alla kickboxing. La grande opportunità è arrivata con la convocazione in Nazionale e da quel momento... ho fatto quello che ho fatto».

Ovvero ha vinto un sacco di titoli mondiali... Qual è il suo ricordo più bello?

«Sono parecchi. Come il titolo mondiale dilettanti nel 1995 a Stoccarda, prendendomi la rivincita su un atleta inglese che mi aveva battuto due volte agli Europei, e come il primo titolo da pro per la Wako nel 1994 a Termeno. Un altro momento memorabile è stato il titolo di Grand Championship a Philadelphia. Eravamo lì con la Nazionale italiana per affrontare gli Stati Uniti, che erano dei mostri. Li abbiamo battuti a casa loro! Poi, tutti i vincitori di ciascuna categoria si sono affrontati e ho vinto io. Il ricordo più recente, invece, è il titolo europeo Master di Taekwondo nel 2017 in Lussemburgo. Avevo programmato molto bene quella competizione. Ho battuto prima un tedesco, che mi aveva sconfitto al World Master Games. Avevo una voglia così grande di vincere che alla fine ce l'ho fatta. Poi in semifinale ho vinto contro uno spagnolo, ex nazionale, che era sicuramente il grande favorito, e in finale ho battuto un suo connazionale, con 5 punti di vantaggio. Ricordo ancora quel momento sul podio, davvero gratificante».

Con il taekwondo ha trovato una seconda giovinezza?

«Per 15 anni non ho combattuto. Mi allenavo sei volte alla settimana, era dura. Ho passato 12 anni in Nazionale, un'eternità. Era arrivato il momento di fermarmi e per tanto tempo ho solo insegnato. Con il taekwondo ho trovato qualche stimolo diverso e sono tornato a combattere proprio per il puro gusto di combattere. Una volta lo facevo per vincere. Adesso per piacere. Combatto nei Master e me la cavo abbastanza bene, ma combatto anche nei Senior. In Italia non posso, per questione d'età, invece all'estero non ci sono vincoli e per avere 55 anni me la cavo benino. Ogni tanto arriva anche qualche medaglia, ma non partecipo mai per vincere. Però devo stare attento, perché combatto nei supermassimi contro avversari molto tosti: se mi beccano, non mi rialzo! A questi livelli altissimi, poi, c'è molto rispetto e umiltà, valori che negli ultimi anni, anche nel nostro ambiente, in certi casi sono andati persi. Nelle arti marziali bisogna insegnare l'amore per quello che si fa. Senza questo amore, non si va avanti».

Il coronavirus è un problema per uno sport come il vostro, di contatto?

«Rispetto ad altri sport, nelle arti marziali in qualche modo riesci comunque ad allenarti. Io stesso per anni mi sono allenato da solo. Il problema sarà per le società, perché potrebbero venire a mancare i fondi a causa di un'economia più debole».

È vero che stava per intraprendere una carriera da attore negli Stati Uniti?

«Sono stato a Los Angeles nella palestra di Benny Urquidez e poi in quella di Billy Blanks, uno dei più forti in assoluto nel point fighting. Lui era anche un attore e nel suo centro si allenavano tanti vip. Così ho fatto qualche “stunt” sul set. C'erano Van Damme, Chuck Norris, Bill Wallace. Dopo un mese, però, ho lasciato».

Come mai?

«Per vivere negli Stati Uniti devi darci dentro 24 ore su 24. Quel ritmo frenetico mi ha fatto cambiare idea: preferivo lo sport. Ho comunque ottimi ricordi di quell'esperienza».

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