L'inferno negli occhi dei bambini



Perderà anche Omran, il bimbo di cinque anni estratto dalle macerie ad Aleppo: il suo volto attonito, senza lacrime, simile a quello di un bambolotto gettato in un ripostiglio da chi ha fretta di crescere e non ha più tempo per giocare, ha fatto il giro del mondo. Ci ha tolto il respiro. Ci ha messo di fronte alla tragedia della Siria e dei mille altri luoghi nei quali non muoiono più i militari, ma i civili, le mamme, i bambini. «Basta bombe», hanno detto con una sol voce Onu e Ue. Ma Omran perderà la “sua” guerra. Perché Omran è come il ragazzino che a Varsavia, nel 1943, ha alzato le mani atterrito durante il rastrellamento (che è continuato come se niente fosse) del ghetto di Varsavia. È come Kim Puch che scappa a 9 anni, nuda, dopo che il bombardamento al napalm, nel 1972, ha distrutto il suo villaggio, in Vietnam. È come Aylan, il cucciolo d’uomo morto annegato durante uno sbarco a 3 anni, un anno fa, e spinto dalle onde a riva a Bodrum, in Turchia. Una delle tante croci di un mare trasformato in un cimitero enorme e invisibile che è ancora aperto ogni giorno. Omran è l’ennesimo testimone inconsapevole: simbolo per un giorno dell’inferno in terra. Il suo silenzio è il nostro silenzio. Il sangue che sul suo volto si confonde con il fango è il sangue invisibile che lega ogni tragedia a quella che le succederà, in un infinito cerchio di terrore che non si chiude mai. E quelli che si commuovono per un minuto sono in gran parte gli stessi che poi tornano a premere il grilletto. Sono gli stessi che armano chi per combattere ha bisogno di fabbriche di morte. Sono gli stessi che s’arricchiscono con i barconi che offrono una vita diversa per trovare spesso una morte sempre uguale. Sono gli stessi che, nelle nostre città, si riempiono la bocca parlando di profughi, assimilandoli ad ogni delinquente, confondendo il dovere (necessario) dell’accoglienza con il diritto (legittimo) alla sicurezza.













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