Lo spirito dell'Ulivo, contro l'antipolitica



«In un mondo pieno di crepe, l’Ulivo può tornare a essere un elemento di coesione politica e sociale». Parole di un uomo che conosce bene il nostro Paese, un nonno (la definizione è sua) di quasi 78 anni che da molto tempo ha gli occhi in Italia, la testa in Europa e le gambe nel mondo: Romano Prodi. Il professore, che nel 1978 era ministro dell’industria nel quarto governo Andreotti e che è stato a Palazzo Chigi due volte, nel ’96 e nel 2006 (dopo aver guidato la Commissione europea dal ’99 al 2004), ha lanciato un segnale nella nebbia della politica italiana. È partito da lontano, Prodi: da Trump che «s’è impadronito del malessere»; dal recente rapporto dell’Oxfa «che dice che otto Paperoni hanno lo stesso livello di ricchezza di 3 miliari e mezzo di persone»; dal successo di una generica denuncia che funziona solo (come dimostra il crescente consenso del Movimento 5 stelle) se non ha radici ideologiche; da una Germania che potrebbe avere una strategia di riserva: fare da sola, abbandonando addirittura l’euro. Ed è arrivato, com’è suo costume, ad un traguardo politico: la necessità di un riformismo attivo. La necessità di una “scatola” (l’Ulivo, con i sogni che portò con sé) capace di tenere insieme quel pezzo di politica e di società che ancora può rispondere al trumpismo diffuso. Una sorta di coalizione dei migliori contro ogni “vaffa”, per dirla con un termine caro a Grillo.
Il tema è internazionale e nazionale, ma anche locale. Perché in un clima da «elezioni subito», c’è un’unica alternativa al populismo che preoccupa anche papa Francesco: il disagio va capito, non demonizzato o, come piace fare a chi ama strumentalizzare tutto, brandito come una clava. E la risposta non può dunque che essere politica e insieme intellettuale. Deve nascere dal basso - perché le alchimie del potente di turno verrebbero fraintese, almeno in un primo momento - e coinvolgere chi non è più attratto dalla politica tradizionale.
Agli albori del disagio e della disgregazione, Romano Prodi inventò l’Ulivo e Lorenzo Dellai inventò la Margherita. Due storie di successo travolte da dissensi interni, da incomprensioni e dall’incapacità di guardare oltre il proprio orticello. Due storie - come ancora insegna chi in quel periodo si avvicinò con entusiasmo alla politica - capaci di coinvolgere quei partiti e quelle persone che avevano (e hanno ancora?) voglia di contrapporre la democrazia alla demagogia, il riformismo alla (spesso presunta) rivoluzione.
Per ricostruire un po’ di quel clima, oggi molti politici dovrebbero fare un passo indietro per permettere al progetto - che in un secondo momento potrebbe anche tornare a coinvolgerli - di fare due passi avanti. Ulivo e Margherita seppero tenere insieme, seppur in una nuova veste, quel che restava dei partiti tradizionali, le ambizioni di governo, il partito dei sindaci, il centro, la periferia, i riformisti di sinistra, i cattolici e molti altri (intesi come elettori, non come candidati per ogni poltrona) e persino quei pezzi di Svp che capirono che il mondo stava cambiando. Quella stagione durò poco, per diverse ragioni. Ma lo spirito che l’animò sembra ancora l’unico reale antidoto - anche in termini numerici - rispetto all’antipolitica, all’astensionismo, alla sfiducia, alla rabbia.
Forse c’è ancora un tempo per costruire.













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