Manconi, gli ultimi, e la voglia di fare politica



Forse è perché gli occhi l’hanno ormai quasi abbandonato. Forse è per il sereno distacco con il quale - non sembri un ossimoro - s’è sempre fatto coinvolgere.
Forse è perché ha visto e letto davvero molto, attraversando - di persona e fra le pagine - l’Italia dei movimenti e quella delle lentezze, quella delle speranze e quella delle delusioni. Quella che è fuori, da ogni cosa, e quella che è dentro ogni cosa: le istituzioni, ma non solo. O forse è perché è stato, insieme, protagonista e studioso del fenomeno che ha ogni volta vissuto e raccontato. Fatto sta che Luigi Manconi - che alle 18.30 di oggi sarà all’università di Bolzano per parlare del passo lento del corpo migrante - è riuscito a guardare e descrivere come pochi la politica di oggi.
La sua politica, verrebbe voglia di dire, ma anche un’altra politica: quella di chi non sogna (perché il sogno non può essere mai demagogia, bensì approccio razionale) di cambiare il mondo, ma cerca viceversa di “affrontarlo”, individuando risposte, sguardi, approcci nuovi e antichi: come la capacità di vedere e di ascoltare l’altro. Che è cosa ben diversa dal pensare di essere l’altro.
Nel suo ultimo saggio (Corpo e anima- Minimum Fax), scritto insieme a Christian Raimo, Manconi parla a chi ama la politica (emblematico il sottotitolo: «Se vi viene voglia di fare politica») e a chi la detesta. A chi pensa d’aver capito tutto. E a chi pensa di non aver capito nulla. A chi la politica la considera il male assoluto e a chi l’unica soluzione possibile. È un libro che dovrebbero leggere prima di tutto il nuovo sindaco Caramaschi e il presidente Kompastcher: perché introduce il concetto di una nuova cittadinanza (accogliente e matura), nella ricerca di diritti (negati) che vanno prima compresi e poi garantiti.
Forse serve proprio faticare a vedere - proprio come accade a Manconi, che è oggi presidente della commissione per la tutela dei diritti umani del Senato - per aprire gli occhi in modo nuovo, per osare parlare di bio-politica, partendo da una citazione di Ernesto Rossi: «Mi sembra persino inconcepibile che qualcuno faccia qualcosa “per gli altri”. Quel che faccio lo faccio per me, per essere in pace con la mia coscienza. Se desidero alleviare le sofferenze degli altri, dare agli altri una maggior dignità della vita, è perché le loro sofferenze mi fanno pena, le sento come mie, e la loro abiezione, il loro abbruttimento m’offendono: sento in loro offesa la mia umanità».
E queste parole si fanno lenti particolari, dalle quali osservare la realtà, dalle quali intendere - scrive Manconi - «la dignità degli altri insieme a me». Manconi fa di più: ci ricorda che la procedura dell’identificazione si fonda su una menzogna: ovvero sul fatto che si possa essere uguali in virtù di una dichiarazione e di una scelta (io sono tu). Il che è palesemente impossibile. Anche la condivisione più eroica - come nel caso di un missionario che Manconi ha incontrato in Africa e che gli ha detto: «ma io poi torno a casa o comunque posso tornare» - non annulla l’asimmetria. Dunque anche l’evocazione mondana e politica della solidarietà rischia per Manconi la menzogna ogni volta che chiude gli occhi davanti alle disuguaglianze di cui si alimenta.
Manconi ha conosciuto - e vissuto, da dentro - le battaglie di Lotta continua, il carcere, lo studio, la lettura, l’insegnamento, la politica, le aule del Parlamento, la scrittura, l’analisi di una società e diversi luoghi (dall’Asinara dell’infanzia alla Roma di oggi, passando per mille mondi, reali e di inchiostro): ne ha date e ne ha prese. In una vita piena di battaglie, in cui il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro - come ricorda in questo libro che è un’intervista, ma anche una lunga e preoccupata lettera d’amore all’Italia di oggi - rappresenta il punto di non ritorno: «Un trauma collettivo, una sorta di apocalisse intellettuale e politica per i nostri ambienti e la rottura del paradigma sul quale avevamo costruito un decennio di militanza». Poi, in un certo senso, nasce il garantismo, «inteso come sistema di controlli imposti a tutti i poteri, non solo a quello giudiziario, a garanzia di tutti i diritti fondamentali, e non solo di quelli minacciati dall’intervento penale». Poi nasce una declinazione diversa del concetto di diritto. Anzi: di diritti. I diritti dei detenuti. Quelli degli ultimi. Quelli di ognuno di noi, a ben guardare: perché si può diventare “ultimi” all’improvviso, come molti casi di cronaca dimostrano.
«Se esiste la possibilità di evitare una sofferenza - scrive Manconi - il mio compito essenziale, morale politico, è di intervenir per evitarla a ogni costo. La legalità - aggiunge - è fatta anche di tensione, di strappi, di conflitti. È fatta anche di obiezione di coscienza e di disobbedienza. Soprattutto quando la legalità manca di legittimità» (Gandhi parlava di «decreti privi di morale»). Ci sono nomi e cognomi (Mastrogiovanni, Cucchi, Aldrovandi, i politici, i protagonisti di fatti che ricordiamo bene e di cose che abbiamo dimenticato troppo in fretta), nel libro di Manconi. Ci sono parole che cambiano. Richiami a sentenze di tribunali e a sentenze di carta: perché certi cambiamenti, certi sussulti, passano da un titolo, da una considerazione e da valori simbolici che non si misurano in anni (di condanna), ma in molto altro. Si passa dai nomi dei rivoluzionari all’ex Jugoslavia, dalla natura dell’uomo a quella del pianeta. Dalla letteratura al cinema e alla musica leggera. Sullo sfondo, un motto caro a Manconi. Firmato da Camus: «C’è la bellezza e ci sono gli umiliati. Per difficile che sia l’impresa, vorrei non essere mai infedele né all’una né agli altri». Una dichiarazione d’amore per la politica intesa in senso “manconiano”, ma anche per ciò che la politica spesso non sa guardare o capire. Nel libro c’è più di un’idea del potere (dal bunga bunga ai veri problemi dei nostri giorni). C’è il femminismo. Ci sono, nella filigrana d’un saggio scritto da un uomo saggio, i valori, la voglia di condivisione che c’è spesso nella solitudine e più di una chiave di lettura per interpretare questo tempo. Ricordando - per dirla ancora con Manconi, che non a caso abbiamo visto l’ultima volta accanto ai genitori di Giulio Regeni - che «l’affermazione dei diritti umani non è la soluzione: è, invece, la posta in gioco; il traguardo mai definitivamente raggiunto. L’emancipazione delle classi subalterne e la liberazione dei popoli sono state rese possibili, nelle varie epoche, grazie ad un’idea universalistica ed espansiva dei diritti umani e grazie alla promozione della dignità di ciascuno». Questa è la vera voglia di fare politica, in fondo: la capacità (direi anzi la necessità) di muovere dal dolore e dalla forza delle persone in carne e ossa (come direbbe Manconi, per dare sempre un volto alle donne e agli uomini che ha di fronte) e provare a tradurre tutto questo in mobilitazione collettiva: per garantire - come si legge nella copertina del libro - i diritti ancora negati, riconoscere quelli nuovi e contribuire a una cittadinanza più accogliente e matura.
Perché il “corpo e l’anima” - per citare ancora il titolo - sono quelli delle cose, ma anche e soprattutto quelli delle persone.













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