Referendum, gli strani destini di Renzi, Kompatscher e Rossi



Dunque uno sconfitto c’è: Renzi. Lui pensa di essere da solo. E, cosa abbastanza rara in politica, s’è assunto tutte le responsabilità. Ma ha perso anche il Pd. Anzi: ha perso soprattutto il Pd. Se il principale partito italiano si fosse presentato unito al voto, ci sarebbero infatti stati meno spazi: non tanto per gli altri partiti, quanto per la trasformazione del referendum in una sorta di caso personale. Sgonfiato il “Renzi contro tutti”, si sarebbe discusso solo di riforme e si sarebbe scoperto - udite udite - che ogni riforma (inclusa quella che partorì la Costituzione vigente) è figlia di un compromesso. Un centrosinistra compatto avrebbe comunque potuto affrontare anche gli elettori più inviperiti, anche i tanti italiani che per un giorno si sono sentiti dei costituzionalisti, anche gli avversari che fino a ieri cercavano di riformare un Paese che forse non vuole proprio essere riformato. L’obiettivo era però un altro. Mandare a casa il premier. Ed è stato raggiunto.
C’è dunque un “unico” sconfitto. Ma non c’è un vincitore. E se c’è, si chiama popolo sovrano. Perché in democrazia vince sempre la libertà di voto. La libertà di voto, da sola, non forma però notoriamente un governo. E le forze che hanno sostenuto il No non riuscirebbero nemmeno a prendere un caffè insieme, figuratevi a costruire un programma di legislatura.
Lavoro insolito e particolarmente complicato, dunque, quello che attende il capo dello Stato: ieri sera Sergio Mattarella ha preso atto delle dimissioni di un capo del governo che in questi mille giorni ha peraltro dimostrato di avere una maggioranza in Parlamento. Altri potenziali premier potranno avere il consenso necessario almeno per partorire quella riforma elettorale che più parlamenti, negli ultimi anni, hanno dimostrato di non saper varare? È questa la domanda a cui deve rispondere, senza perdere molto tempo ma cercando di ascoltare tutti, il presidente della Repubblica.
Senza riforma elettorale, è palese a tutti, non avrebbe comunque alcun senso tornare alle urne. E questo, a ben guardare, è uno dei tanti “dettagli” sfuggiti a chi ha voluto abbattere Renzi e la sua riforma. Una riforma debole, sia chiaro. Ma una delle poche possibili in questa stagione, se è vero che in aula è stata votata anche da chi l’ha poi rinnegata.
La cosa più semplice, da un certo punto di vista, sarebbe chiedere a Renzi di succedere a se stesso. Ma Mattarella sa bene che le dimissioni di Renzi sono irrevocabili. Matteo, ieri, avrebbe potuto far sua una bella battuta di Cameron (uscito di scena in modo analogo, dopo la pesante sconfitta nel referendum sulla Brexit): «Il futuro ero io, una volta». Ma l’Italia, esattamente come il Regno Unito, non sembra aver una gran voglia di tuffarsi in questo futuro. Come ricorda il politologo Diamanti: si tende a guardare sempre tutto dallo specchietto retrovisore.
Prima che il presidente della Repubblica trovi un altro premier - il “pontiere” Franceschini, il “garantito” e stimato in Europa Padoan, il “delfino” renziano Delrio, il presidente del Senato Grasso? - le forze politiche hanno però bisogno di fare un esame di coscienza collettivo.
La domanda è semplice: distruggere tutto dove può portare? A minuscole vittorie personali che ben difficilmente sarebbero vittorie collettive per un Paese che ha invece bisogno di governi coesi, di stabilità e di una ben altra credibilità in Europa.
Interessante, in un quadro che non può non preoccupare e che Renzi ha comunque sottovalutato (perché a braccio di ferro si può vincere anche spesso, ma non sempre), quello che è accaduto nella nostra terra. Da una parte, una conferma: siamo in Italia. I trend nazionali si intersecano puntualmente con quelli locali: è così da molti anni. Ma l’Alto Adige, nel bene e nel male, è ancora e sempre una riserva indiana. L’anomalia (che è tale solo per chi non conosce questo territorio) arriva infatti dal voto tedesco, che fa trionfare nelle valli altoatesine il sì, alterando il dato regionale e quello delle città più grandi. È molto semplice: dove ci sono italiani, il no trionfa, esattamente come nel resto dello Stivale. Dove la Svp conta ancora (e in certe valli trentine particolarmente vicine al Patt il discorso è analogo), ha vinto il sì. Ma la giunta Kompatscher esce dal referendum di domenica rafforzata: ha sostenuto Renzi con coerenza e ha “vinto”. Di più: è l’unica autonomia speciale ad avere creduto nell’intesa siglata con Renzi. La giunta Rossi esce invece dalla “domenica del no” con le ossa rotte: la riforma ha sostanzialmente “sfondato” solo nelle terre nonese e solandre. Da tutte le altri parti la maggioranza che sostiene il governatore trentino s’è sciolta come neve al sole. E il 2018 è dietro l’angolo.
Colpisce che da una parte - in Alto Adige - si sia compreso quanto l’autonomia sia riuscita ad ottenere in questi due anni da Renzi e che dall’altra - in Trentino - non ci si sia fidati sino in fondo di queste “conquiste”. Siamo seri: l’autonomia, in questa stagione, non poteva ottenere di più. In cambio di un pugno di voti, ha strappato la luna. Della serie: non si muove foglia che l’autonomia non voglia. Ma la riforma, come noto, non è passata. E nell’incerta stagione che si apre ogni scenario è dunque possibile: non è affatto detto che la nostra delegazione parlamentare riesca a far pesare in eterno pochi voti come se fossero tantissimi. A maggior ragione per quel che riguarda un Trentino che - numeri alla mano - si sta staccando inesorabilmente da Bolzano.
Su Renzi va detta un’ultima cosa. È a un bivio: o resta alla guida del Pd e si propone agli elettori, ammesso che ancora gli credano, come l’unico eroe che ha tentato vanamente di cambiare l’Italia e gli italiani o sparisce definitivamente dalla scena. Non è infatti uomo da mezze misure, mezze stagioni e mezze alleanze. Quella che pensava fosse la sua stagione, s’è rivelata in realtà la sua stazione: un punto d’arrivo molto diverso da quello che s’immaginava; un binario morto, salvo un miracolo.
Una terza via, per Renzi, dunque non c’è. E lo si è colto già nelle parole che ha pronunciato l’altra notte. Groppo alla gola incluso.
Del resto, anche chi ha sgonfiato le gomme di Renzi senza avere una bici in grado di superarlo, sa molto bene che un’alternativa reale, all’orizzonte, non si vede. E sa anche che costruire un consenso su questo forte dissenso non è solo difficile, ma pressoché impossibile. Ma noi italiani siamo fatti così. E i partiti (o quel che ne resta) ci rappresentano perfettamente: adoriamo mandare a casa questo o quello e raramente - anche perché pensiamo d’essere sempre i migliori in tutto - ci preoccupiamo delle macerie che lasciamo alle nostre spalle. È così da sempre. Non a caso, lo stesso Massimo D’Azeglio - benché sull’attendibilità di quelle parole ci sia più di un dubbio - se ne uscì con quella frase ormai mitica: «Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani». Lavori (difficili) ancora in corso. Inutile dunque sorprendersi. E inutile anche rifugiarsi nella spiegazione più banale: ha vinto il No perché la riforma era scritta male. È vero: non era una gran riforma - per non dire di peggio - ma non si può negare l’evidenza: s’è votato su altro. E infatti è caduto l’ennesimo governo. Ed è finita anche quella che molti - a cominciare dal presidente dimissionario, che puntava sin troppo su questa idea - consideravano l’ultima spiaggia. Quella che si è aperta ieri, però, non è solo una crisi di governo. È una crisi di sistema. Anche in questo territorio che vede indebolirsi ancor di più il concetto di regione. Segnali che non si possono sottovalutare.













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