Siamo un po' tutti americani



C’è un po’ d’America in tutti noi. Ci sono film visti e rivisti. Libri ai quali ci siamo affezionati. Viaggi fatti o anche solo agognati. Verità e leggende. C’è un’idea di democrazia che non viene scalfita nemmeno in questi giorni d’incertezza prossima all’incomprensibile. C’è un’idea di federalismo compiuto, nell’America immaginaria che c’è nei nostri pensieri. C’è un’idea di unità e compattezza che a noi piace molto, al punto che ci aspettiamo ancora che Trump ammetta la sconfitta, come tanti perdenti hanno fatto prima di lui, mettendo sempre gli interessi collettivi davanti ai destini individuali. Idea che ci piace tanto, anche se la nostra resta la terra dei campanili e delle sfumature, dei distinguo e dei cavilli. 

E c’è anche - figlio dell’idea idealizzata che abbiamo degli Stati Uniti - un po’ di Trump in ciascuno di noi. Non lo spaccone miliardario e guascone che un po’ ammalia e un po’ irrita, ma molto più semplicemente l’uomo-bambino che non sa perdere. La nostra storia è piena di perdenti che non hanno accettato la sconfitta. Piena di leader diventati leaderini spesso patetici, pronti a fondare partitini dopo aver perso la guida dei “veri” partiti o dopo aver ceduto, riluttanti, le poltrone di presidenti o ministri. Ci sono eccezioni:penso a Enrico Letta, che - al di là di quella campanella “tirata” a Renzi - ha lasciato anche il parlamento e s’è messo a fare il professore senza rivendicare nulla. O a Romano Prodi, pronto a farsi da parte in più di un’occasione, senza rubare il pallone a chi l’aveva nel frattempo conquistato. Ma sono mosche bianche.

I “trumpiani” inconsapevoli, quelli che detestano o amano Donald senza rendersi conto d’esser stati in più di un’occasione simili a lui, sono invece tanti: si va da D’Alema a Bersani, passando per Renzi o per Bossi, per Berlusconi o per Monti o per i tanti che - anche a livello locale, ieri non meno di oggi - hanno davvero faticato a lasciare la loro “Casa Bianca” per ritrovare un posto nella (spesso anonima) normalità. I padri nobili sono pochi. Gli orfani inquieti sin troppi.

Le lezioni americane - da non confondersi con le meravigliose pagine lasciateci da un Italo Calvino più citato che letto - sembrano facili da assimilare, ma le dimentichiamo sempre in fretta. Anche questa volta, mentre ce ne stiamo buoni buoni appesi all’esito del voto americano pur faticando a capire l’ultimo conteggio dell’ultimo Stato, in un sistema elettorale così ingarbugliato da risultare indecifrabile, soprattutto quando si parla di voti assoluti, di grandi elettori e di milioni di voti arrivati per posta. Già, la posta: l’altro giorno, in Bassa Atesina, una cartolina è arrivata a destinazione dopo 19 anni. Gli Stati Uniti se la sono cavata più in fretta. 

Nella nebbia di queste ore, ci resta, ben saldo, un raggio di sole: trabocchetti (ormai patetici) di Trump a parte, l’anziano (troppo?) e prudente nuovo presidente Biden, insieme alla prima vicepresidente donna della storia, Kamala Harris, saprà riaprire un vero dialogo con l’Europa, spingere più in là il sovranismo e declinare in modo diverso un sogno che in fondo non è mai stato solo americano.













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