Il lavoro duro dei profughi al cimitero 

Stanno rimettendo in sesto le vecchie mura. Fanno i falegnami per le scuole, spalano la neve e sono in turno nelle mense


di Sara Martinello


LAIVES. Ibeh ed Ehimwemna hanno cambiato i filtri delle macchine di ventilazione in tutte le scuole e le palestre, sgomberato le strade dalla neve e sparso il sale, fatto interventi di falegnameria nelle scuole per garantire la sicurezza di porte e finestre, riordinato e pulito il magazzino del Municipio, apposto la nuova pavimentazione al Galizia. Hanno lavorato allo scavo dell’acquedotto, alla manutenzione delle fognature e del manto stradale e alla pulizia delle foglie cadute sulle strade. Hanno anche montato i cartelli elettorali. Ora, in attesa dell’opera di ripristino delle aiuole, ogni mattina si recano al cimitero, dove stanno rimettendo in sesto le mura togliendo il cemento che fa da rattoppo e rendendole più armoniose alla vista.

In mensa il lavoro è diverso, c’è scambio con gli altri membri dell’équipe. Lì, Quadri e Okunrobo tagliano verdure, carne e pane, preparano insalate, lavano le pentole e puliscono la cucina.

È la lista dei lavori socialmente utili svolti dai cinque richiedenti asilo nigeriani in attesa della convocazione da parte della commissione territoriale. Coordinati dall’architetto del Comune Patrick Demattio e dal vicesindaco Giovanni Seppi, ogni mattina, per circa 6-7 ore, i migranti lavorano per la comunità di Laives.

Un lungo viaggio. Sono cinque, tutti dalla Nigeria. Tutti hanno affrontato un viaggio estenuante fino in Libia, 4500 chilometri, tre Italie. E poi un altro viaggio dalla Libia alla Sicilia, dalla Sicilia a Laives. Alla domanda sui motivi che li hanno spinti a farlo, questi giovani uomini si incupiscono, finché Wasiu Quadri, 26 anni, rompe il ghiaccio. «Nel mio Paese scavavo la terra alla ricerca dell’oro. Avrei voluto diventare orefice come mio padre, ma lui era troppo anziano per potermi insegnare il mestiere, così, siccome ero ancora inesperto, il mio datore di lavoro mi aveva minacciato di violenza. Ho raccolto le mie cose e me ne sono andato. La meta del mio viaggio era la Libia, dove speravo di trovare lavoro e sistemarmi. Lì, però, il clima di soprusi mi ha costretto ad andarmene: ma dove? Il viaggio di ritorno verso la Nigeria era troppo lungo e rischioso, allora mi sono imbarcato verso la Sicilia», racconta in un inglese marcato dall’impronta nigeriana. Dalla Sicilia Quadri si è spostato a Bolzano, esattamente come Abel Ibeh, Saturday Ehimwemna e Joseph Okunrobo. Un anno al centro profughi ex Gorio in via Macello e da novembre al Cas (Centro di accoglienza straordinaria) di via Nobel, a Laives. Da dove ogni mattina raggiungono il posto di lavoro: Ibeh ed Ehimwemna, rispettivamente 29 e 45 anni, ex saldatore ed ex contadino, si dirigono verso i cantieri comunali, mentre Quadri e il ventisettenne Okunrobo (che in Nigeria era un idraulico) raggiungono la mensa del Comune.

Trovare la pace. «Tanti sono incuriositi da ciò che facciamo. Mentre lavoriamo gli abitanti di Laives ci dicono: “Bravo!”, qualcuno ci dà anche un panino», commenta Ehimwemna. «Ma quando camminiamo per la città alcuni mostrano diffidenza: parolacce, insulti - ribatte Quadri -, a cui noi non rispondiamo: non è questo il modo di dialogare. L’unica cosa che possiamo fare è ignorare i commenti e proseguire per la nostra strada, intristiti dall’episodio razzista, sì, ma senza farci prendere dalla paura o dalla rabbia. Alla fin fine le persone gentili sono molte di più di quelle cattive».

Quadri qui è contento, asserisce di aver trovato una pace interiore in cui non sperava nemmeno. E così anche Ehimwemna, che in Nigeria ha lasciato la moglie e i due bambini: «Voglio lavorare, guadagnare abbastanza da riuscire a sistemarmi e poi portarli qui, per una vita più serena».

L’integrazione passa per l’interazione. «Per interagire con chi ha una storia di migrazione, per creare un legame di fiducia, servono formazione e chiarezza», spiega Fabrizio Bissacco, approdato al Cas di via Nobel come responsabile. Una laurea triennale in Scienze politiche, diritto dell’economia e governo delle organizzazioni, un anno di volontariato in un’organizzazione che assiste persone con disabilità psicofisiche e anni di esperienza da operatore e da responsabile dell’Hotel Alpi e poi a Laimburg: «Una grande differenza culturale sta proprio nel fatto che se uno si dimostra inaffidabile in un’occasione, sarà visto come inaffidabile anche in futuro. È la sincerità a saldare i rapporti».

Lavoro quindi sono. Questi cinque migranti sfaccettano il monolite dell’immigrazione - o, meglio, della sua percezione - e si immettono sul binario del “lavoro quindi sono”. Adottano la sintassi del territorio in cui vivono per poter interagire ed essere accettati, per imparare la lingua, per costruirsi un futuro. Con risposte in larghissima parte positive da parte dei residenti, che da parte loro contribuiscono a innescare un sistema felice in cui tutti possono trovare posto. Certo, c’è uno scarto tra i momenti di svago, quando dismessi gli indumenti da lavoro i richiedenti asilo passeggiano per Laives e si vedono piombare addosso qualche insulto, e le mattinate in cantiere, quando vengono lodati per il servizio offerto. E lo stare al mondo, in qualsiasi posto, è qualcosa che non ci si guadagna - è uno stato che implica la dignità umana. Ma anche in Nigeria il lavoro nobilita l’uomo: e così queste persone sono le prime a individuare nella fatica un mezzo per riscattare il proprio futuro, smacchiandolo dalla violenza da cui sono dovute fuggire.













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