È nata una nuova capitale, ma la città è ancora fredda

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di ALBERTO FAUSTINI

Bolzano s’è lanciata come vera e propria capitale dell’innovazione, liberandosi per una volta dell’immagine di Heidi, delle caprette che ti fanno ciao e del mondo fantastico. Ha fatto di più, grazie al Festival: ha dimostrato che l’innovazione è pratica quotidiana e insieme conquista collettiva, calando l’asso della concretezza (le esperienze reali sono davvero molte, da queste parti), allargando lo sguardo sul mondo e ridimensionando paradossalmente - senza volerlo, ovviamente - il concetto di capitale della cultura, che ancora fatica ad essere recepito. Bilancio insomma positivo, con molte promesse che, una volta attuate, potrebbero fare di Bolzano e dell’Alto Adige l’avamposto della green economy, della sperimentazione continua, della costruzione di un’idea di futuro innovativa, rispettosa dell’ambiente e anche coraggiosa. Pochi territori hanno queste caratteristiche e pochi territori hanno denari e idee per consolidare sulle fondamenta del Festival qualcosa di più concreto.

Fra le note positive, anche la capacità di guardare lontano, cercando contaminazioni virtuose, facendo una scommessa coraggiosa e non facile in tempi come questi.

Ci sono però anche note dolenti e ingranaggi da sistemare subito. La prima e anche la più importante: è mancato l’effetto Festival, la sensazione di essere tutti - in ogni quartiere, in ogni angolo, in ogni contesto - in un grande contenitore. In assenza di questo effetto, una bella fetta di città, intesa come facce, come persone, come curiosi alla ricerca di una chiave per leggere il futuro, s’è tenuta distante dal Festival. Salvo rare eccezioni (Rifkin e Menchù) e salvo il bel successo della notte della ricerca, in giro si sono viste alcune scolaresche e molti volti noti. Colpa del fatto che siamo alla prima edizione, colpa della ritrosia altoatesina e colpa, forse, anche di un programma sin troppo tradizionale: molti nomi altisonanti s’erano già visti e altri, di buon appeal, forse non sono stati venduti al meglio. Ma è tutta esperienza: sugli errori della prima edizione - che sono soprattutto errori di comunicazione, peraltro da non sottovalutare - si può costruire il successo della seconda. Ci sono però cose che vanno corrette immediatamente. Ci vogliono più ospiti di richiamo, anche spiazzanti: così le illustri defezioni (che una buona organizzazione deve poter rimpiazzare al volo) passano in secondo piano. I luoghi devono poi sprizzare innovazione. Invece piazza Walther sembrava il teatro di un qualsiasi mercatino e «Campofranco» ricordava troppo una costola del mercatino di Natale. I simboli contano. E l’idea di innovazione dev’essere chiara e travolgente. A tutti e per tutti.

Si può e si deve fare di più anche per coinvolgere le punte avanzate di innovazione di questo territorio. Ma gli scettici e quelli che hanno frenato si stanno probabilmente già mangiando le mani. Perché la stagione dell’innovazione è comunque iniziata.

Ora si tratta di spiccare il volo.













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