Archivio Pedrotti, 90 mila immagini custodite dal figlio Luca

Enrico e i suoi fratelli, quei ritratti che illuminarono il primo dopoguerra



BOLZANO. E’ il 3 novembre del 1918, l’esercito austro-ungarico si ritira disordinatamente, stanno per arrivare gli italiani. Da Trento un gruppetto di bambini e ragazzi corre lungo la statale verso sud impugnando tricolori arrangiati con carta e stoffa, “tutte le strade erano piene di soldati austriaci che venivano su, dalla valle dell’Adige. E carri e biciclette e auto, ogni tanto una si fermava e la lasciavano lì e andavano a piedi come gli altri.

Da una parte e dall’altra della strada era pieno di roba che buttavano via i soldati camminando, e fucili, e giberne, e maschere perché pesavano troppo”. Sono, questi, i ricordi scritti da Enrico Pedrotti, che allora aveva tredici anni, e che era corso incontro ai soldati italiani con i fratelli Silvio e Mario.

“Molti sembrava venissero da lontano, ed erano pieni di polvere sulle barbe, e sembravano più vecchi e più stanchi, e andavano piano piano con la testa bassa (…) e forse avevano anche loro i bambini a casa che li aspettavano, e facevano pena e avevano fame, perché si vedeva”.

E poi oltre: “Giù verso Mattarello, in mezzo alla polvere e alla confusione dei tedeschi, passò un camion diverso dagli altri, e solo guardando dietro abbiamo visto il tricolore, e non abbiamo avuto il tempo di gridare di gioia. Allora siamo corsi ancora più in fretta finché ne abbiamo visto venire un altro, e tutti noi ragazzi l’abbiamo fermato, e abbiamo dato un baco a tutti i soldati che parlavano italiano come noi (…) e ci dissero che venivano subito dietro i soldati a piedi, e allora via di corsa, e non capivamo più niente dalla contentezza”.

Enrico Pedrotti era il maggiore di quattro fratelli (Enrico, Mario, Silvio e Aldo) sopravvissuti ai sette della famiglia di un falegname che abitava alle Androne, e che avrebbero scritto parole importanti nella storia della fotografia e del canto corale.

Un’infanzia difficile, soprattutto per la malattia del padre Mansueto, il trasferimento coatto in Boemia per l’avvicinarsi del fronte, stenti, il ritorno a Trento e la necessità di andare a lavorare il più presto possibile per portare a mamma Rosina qualche lira,

Enrico deve lasciare la scuola e va a bottega presso l’atelier di un fotografo che gli insegna l’arte ma non lo retribuisce, allora Enrico si trasferisce in uno studio concorrente, poi con i fratelli mette su un laboratorio proprio, i mezzi sono pochi ma l’ingegno sopperisce, e nascono fotografie “diverse”, permeate di luce, fotografie dal “tono alto” – come si disse sul finire degli Anni Trenta.

Leggiamo sulla rivista “Luci e Ombre” del 1934 quanto scrisse il critico Italo Zannier: “Luminose, allegre, erano queste nuove immagini dei Pedotti. La ‘luminosità’ infatti fu una scelta quasi istantanea; ossia venne privilegiato il ‘tono alto’ (che) negli anni dell’ultimo dopoguerra caratterizzò addirittura la fotografia italiana (…). Questa era l’unica fotografia conosciuta e riconosciuta all’estero, sia nei salon che nelle redazioni delle riviste specializzate.

I Pedrotti furono i precursori di questo gusto”. Vennero i riconoscimenti internazionali (a Dresda nel 1935 i Pedrotti vinsero il primo premio, ma ottennero anche il quarto e il settimo). Gli encomi, le citazioni. Parallelamente la loro passione per il canto popolare corale li indusse a fondare un complesso a sua volta prestigioso: il Coro della SAT. Ma questo sarebbe un altro racconto. Venne il 1937 ed Enrico lasciò i fratelli a Trento per aprire un suo atelier a Bolzano, in via della Mostra (ove oggi si trova la galleria Goethe), apprezzatissimo tra l’altro per i ritratti (v. le foto qui pubblicate).

La guerra, la cospirazione partigiana con l’impianto di una radio ricetrasmittente nei pressi di Molveno, l’arresto e il lager di via Resia, gli interrogatori. Poi la liberazione e la consegna ad Enrico da parte degli alleati del brevetto Alexander. Enrico Pedrotti se n’è andato nel 1965. Di lui, oltre al ricordo, restano le tante belle immagini che ha scattato. Nell’archivio del figlio Luca ve ne sono 90.000.

Un tesoro.

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