Belluzzo, ricordi di lager: «Il mio viaggio nel dolore»

Veneto d’origine, vive in via Toti uno dei reduci delle deportazioni naziste Nel suo racconto, le violenze subite, il pianto per i morti, la gioia della liberazione


di Ezio Danieli


MERANO. È uno dei pochi reduci dei campi di concentramento ancora in vita. Domenico Belluzzo, quasi 90 anni, vive in via Toti con la moglie Iride.

“Ero il primo di otto fratelli e fino a 23 anni ho fatto il mezzadro - ricorda - Poi mi sono trasferito a Merano dove ha svolto la professione di muratore”. Nato a Meduna di Livenza, in provincia di Treviso, i suoi ricordi della deportazione iniziano quando aveva 18 anni: "Ero in un paese vicino a Cividale del Friuli quando ci fu un rastrellamento da parte delle Ss. Riunirono tutti in piazza, cercavano due capi partigiani che furono trovati e vennero dilaniati in piazza dai cani prima di essere portati al cimitero. Lasciarono stare le donne e i bambini. Presero tutti gli altri, me compreso, e fummo portati ad Udine. Ci fermammo pochi giorni soltanto. Scelsero i più robusti che vennero trasferiti a Breslavia, oggi in Polonia”.

Lì Belluzzo e gli altri avevano il compito di scavare le trincee, in vista dell'arrivo dei russi. "Eravamo circa 180 italiani e ricordo ancora la fame: al mattino ci davano un tè e la sera pane e formaggio che doveva bastare anche per il pranzo al giorno dopo. Qualche volta ho mangiato una zuppa di barbabietole”.

Il 1° aprile 1945, scrive Belluzzo nel diario che è conservato alla biblioteca provinciale Claudiana nell'archivio delle fonti orali, "stavamo dormendo quando scoppia un finimondo. I bombardieri lanciano dal cielo le loro bombe. Crollano le case, si sviluppano incendi, tutto e tutti sono sepolti sotto la polvere. In tanti muoiono. Poi gli aerei tornano per la seconda fase del raid. Ci buttiamo nel bunker e riusciamo a salvarci. Sono rimasto a Breslavia fino alla fine della guerra. Tedeschi e russi combattevano casa per casa in una città che era un cumulo di macerie. Eravamo spesso nascosti, mangiavamo quando si poteva".

Un giorno Belluzzo e gli altri vennero trovati dai soldati russi mentre si nascondevano in una buca: "Uscimmo con le mani alzate e loro si misero a ridere. Ci offrirono sigarette. Fu in quel momento che capimmo che la guerra era finita. Eravamo rimasti in poco più di cinquanta”.

Ma non era finita l'odissea: "Ci trasferirono a Varsavia - racconta ancora Belluzzo - dove per un mese lavorammo per liberare la città dalle macerie. Poi altro trasferimento in Ucraina per lavorare nei campi: per fortuna ci davano da mangiare bene e a sufficienza. Rientrammo in Italia con un treno-tradotta che impiegò 20 giorni per arrivare ad Udine. Scendemmo dal treno per giungere quindi a piedi a casa. Siamo i ragazzi che tornano dalla guerra, dicevamo a chi incontravamo per strada. Una ragazza corse in paese ad avvisare gli altri. Le campane suonarono a festa: era sabato, sabato 10 ottobre 1945. Ricordo ancora l'incontro con i miei genitori e la mia famiglia. Ed anche la balla che feci per dire addio a quell'incredibile odissea che ho vissuto. Sono contento di essermela cavata. Mi dispiace, moltissimo, per in tanti amici che ho perduto".

Domenico Belluzzo, come gli altri reduci della prigionia nei campi di lavoro e di sterminio nazisti, non ha avuto dallo Stato italiano alcun riconoscimento. "Il presidente Pertini - ricorda - ci ha riconosciuto 10 mila lire al mese”. Che ora, con l'euro, sono ben poca cosa.

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