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Bolzano: il soldato pacifista che ha visto l’inferno, dall'Etiopia alla sacca del Don

I massacri e l’orrore in Africa, poi la Grecia, la Russia, e la prigionia nei gulag. La guerra infinita di un bolzanino che odiava le armi e il razzismo


di Luca Fregona


BOLZANO. «Sono Alfredo Dalla Vecchia, e arrivo dall’inferno». Per tre volte Alfredo Dalla Vecchia è andato e tornato... dall’inferno. Lui, socialista “d’istinto”, anti-militarista e pacifista, ha vissuto per 10 anni in guerra. Prima l’Eritrea, poi la Grecia e quindi il fronte russo, la sacca del Don, e la prigionia nel Caucaso. Dall’Africa è tornato con 200 foto che testimoniano i crimini del fascismo coloniale. La sua storia è quella di migliaia di giovani risucchiati nel vortice delle disfatte i Mussolini. E che si intreccia con quella della comunità italiana di Bolzano.

PRIMA DELLA TEMPESTA. Alfredo Dalla Vecchia arriva a Bolzano nel 1931 da Malo, Vicenza. Ha 20 anni. È restauratore, artigiano, pittore. Inizia a lavorare come decoratore: stucchi veneziani, scritte pubblicitarie, restauri nelle case padronali e nelle chiese. I soldi sono pochi. Le sere si passano al «Torchio» di via Museo con gli amici. Giovani arrivati da mezza Italia, in cerca di fortuna. «Una volta - racconterà ai figli divertito - abbiamo trovato i piatti rovesciati sul tavolo». Un “messaggio” dell’oste: «Ci ricordava che non avevamo ancora saldato il conto...». Al Torchio si parla di arte e pittura. Alfredo ricomincia a dipingere, una passione che coltivava sin da ragazzino, e ricava uno studio da una soffitta sotto i Portici. Conosce Ulderico Giovacchini, uno dei più importanti eredi della tradizione dei Macchiaioli. Quando il maestro elogia i suoi quadri, tocca il cielo con un dito. «Niente in quegli anni ci sembrava impossibile».

Nel 1934 conosce Nella Raffaelli, una ragazza di Volano che si è trasferita con i genitori e i sei fratelli (tutti maschi) a Bronzolo. La famiglia ha preso in concessione a mezzadria Maso Göller, vicino alle cave di porfido. Nella ha carattere. È forte, indipendente, emancipata. Una bella donna. Cappelli castani, occhi grigi e zigomi alti. Lei e Alfredo si conoscono al Ristorante “La Veneziana”, dove Nella lavora in cucina. È un colpo di fulmine. Un grandissimo amore, che resisterà a quasi 10 anni di guerra e lontananza.

L’ORRORE IN ETIOPIA. Pochi mesi dopo, il 12 febbraio 1935, Alfredo viene richiamato alle armi. Ha 24 anni. È caporale del Genio telegrafisti. Il 17 maggio parte per l’Abissinia dal porto di Napoli. Il 26 maggio sbarca a Massaua. Alfredo è un socialista “istintivo”. Crede nell’uguaglianza. Non abbocca alla “teoria della razza”. Snobba le adunate e il saluto al duce. «Gli etiopi - racconterà più tardi con estremo pudore - venivano trattati come un popolo inferiore. Ho visto il razzismo, lo sfruttamento, i massacri di massa, le violenze sessuali sulle donne...». Entra in confidenza con un fotografo mandato dal duce a immortalare l’impresa. Tornerà dall’Africa con 200 foto. Alcune bellissime, altre terribili. Alfredo con i bambini, con i pastori dei villaggi. Paesaggi incredibili. Montagne, fiumi, deserti, donne bellissime. Guerrieri fieri. Le immagini poi cambiano. E diventano un atto d’accusa al regime: impiccagioni di massa, fucilazioni, corpi mutilati, decapitati, bruciati dai gas, dall’iprite, dai lanciafiamme. Per Alfredo, l’Africa è un calvario. Un percorso dolorosissimo. Quello che in Italia era un disagio abbozzato, sottopelle, si trasforma nella piena coscienza dei crimini dell’imperialismo straccione di Mussolini. È nauseato dal razzismo degli ufficiali italiani, dalla loro brutalità. È insofferente alla propaganda, alla retorica, alle bugie. «Non sopportavo vedere altri uomini trattati da schiavi». È indignato per l’ipocrisia della chiesa: «I cappellani militari ci benedicevano prima di andare a uccidere o di essere uccisi. Che religione è mai questa, che celebra la morte?». Il “primo giro” all’inferno finisce il 10 agosto 1936, quando torna in Italia dopo un anno di Eritrea.

Alfredo è stremato, deluso. I tempi sono bui. L’Africa è stata orribile. Per fortuna c’è Nella. Pensano al futuro. Insieme guardano lontano. Il 26 agosto 1939 si sposano. Vanno ad abitare ai Piani, in via Dolomiti. Nel gennaio del 1940 nasce il primo figlio, Lucio. Sono una “vera” famiglia. Mussolini però ha altri progetti. E non sono di vita. Il 10 giugno 1940, l’Italia entra in guerra. Il primo febbraio 1941, Alfredo viene richiamato e spedito in Grecia. Due mesi in prima linea. Torna alla fine di maggio. Ma non è finita.

L’INFERNO DI GHIACCIO. Il 16 luglio lo aspetta un treno diretto ancora all’inferno: in Russia. Nona Compagnia, quarto battaglione Genio alpini. È un giorno tremendo il 16 luglio 1941. Alfredo ormai è un uomo di trent’anni, ha moglie e un figlio. Ha vissuto già due guerre, ha visto cose atroci. E ora riparte tutto daccapo.

Nella lo accompagna alla Stazione di Bolzano, dove lo aspetta la tradotta.

«Mentre camminavamo verso la stazione - racconterà lei più tardi ai figli - nessuno dei due parlava. Eravamo come “bloccati dentro”, non riuscivamo a dirci quello che provavamo. Io non volevo piangere, mi sarei vergognata troppo di fronte ad un uomo che non sapeva se sarebbe tornato vivo. Dovevo essere forte. In quel maledetto silenzio, sapevo che mi stavo preparando ad un’altra battaglia, quella della nostra vita, quella del nostro futuro. Una cosa era certa: sarei stata determinata come la prima volta in Africa, ma mai avrei immaginato che la Russia potesse darmi il tormento che è stato». Una pena che durerà quasi cinque anni.

Alfredo arriva sul fronte russo, e si rende subito conto che i soldati italiani sono stati mandati al massacro. È di stanza nell’ansa del Don. Passa il suo primo inverno nella steppa, deve controllare 90 chilometri di rete telefoniche nella zona di Rykovo. «Eravamo vestiti male, con scarpe ridicole, e faceva freddo, tanto freddo: fino a 50 gradi sottozero». Vede i compagni morire, i soldati italiani demoralizzati, decimati da pallottole, ordini sbagliati, gelo e malattie. Vede la differenza coi russi: abituati all’inverno, con divise calde di feltro e lana, i colbacchi di astrakan. Motivati dalla difesa della propria terra.

Alfredo pensa a Nella e al figlio, stringe i denti e tiene duro. Nel maggio 1942 riceve un encomio e torna in licenza. Sei giorni a casa e trenta di viaggio. Fa solo in tempo a concepire il secondo figlio, di cui però rimarrà all’oscuro per i successivi quattro anni. La ripartenza per il fronte russo è nuova fonte di dolore e sofferenza. Alfredo e Nella parlano fitto, si scambiano parole e carezze. Si promettono amore “qualsiasi cosa accada”. Questa volta però Alfredo va in stazione da solo. Non si gira a salutare, e neanche Nella ha il coraggio di affacciarsi alla finestra. Bolzano è bella come può esserla solo in certe giornate di giugno. Il cielo blu cobalto, i boschi della conca verdi e rigogliosi, la brezza calda che ti accarezza il volto. La vita che stride con la brutalità della guerra.

RESISTI. Sul Don la situazione ormai è disperata. I soldati italiani sono allo sbando, incapaci di reagire, inebetiti dal freddo e dalla fame. Gli alpini vengono aiutati dalle donne russe, che li ospitano nelle isbe e danno loro da mangiare. «Dividevano con noi quello che avevano - racconterà Alfredo -. I loro uomini erano nell’Armata rossa, e speravano che da qualche altra parte qualcuno li aiutasse come loro facevano con noi». Dopo l’Eritrea, Alfredo capisce che anche la Russia è un’autentica follia. «Noi eravamo gli invasori. Avevano il diritto di cacciarci a fucilate, eppure queste donne avevano pietà di noi. Avevano capito la stupidità della guerra. Che noi eravamo solo dei ragazzi, vittime come loro».

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Alfredo, che è un alpino, si trova bloccato nella sacca del Don. Battaglie poi entrate nella retorica del regime: Rykovo, Stalino, Nikolajewka. Un massacro continuo. Resta intrappolato, accerchiato dall’Armata Rossa nella sacca. Neve, freddo, compagni morti congelati, fosse comuni con centinaia di soldati italiani. Sotto il tiro costante dei lanciarazzi Katiuscia e dei kalashnikov. Riesce comunque a mandare ancora notizie a casa. Riesce anche a spedire a Nella del the del Caucaso, un toccasana contro le malattie. Poi tutto precipita, il fisico non ce la fa più. Il battaglione si sfalda. Dal 13 dicembre 1942 per l’esercito italiano, Angelo Dalla Vecchia, classe 1911, è ufficialmente disperso nell’ansa del Don. La notizia arriva a Bolzano. Alfredo cammina nella neve per giorni, dorme dove può, ospitato nelle isbe. È stremato. Cerca di aggregarsi alle truppe in rotta per uscire dall’accerchiamento. Si trascina. Cede. Si accascia su una catasta di morti. Quasi a cercare un riparo. «È finita - pensa -. Sto morendo». Non sente quasi più i battiti del cuore. Vede solo il grigio del cielo, il bianco delle neve. Passano un uomo e un bambino. Il bambino tira il braccio all’uomo. «Papà, papà, uno dei morti si muove!». L’uomo si allontana. Va a prendere un carro trainato dal cavallo. Prende Alfredo in braccio e lo posa sopra delicatamente. Lo copre con una coperta. Arriva un ufficiale dell’Armata rossa, una donna. «Sei mio prigioniero», dice in italiano. E poi in russo: «Davai, dai. Resisti». È il 21 dicembre 1942.

Alfredo resiste. Lo portano in una specie di ospedale da campo allestito in una stalla. È pieno di soldati italiani in fin di vita. È una macelleria. I medici amputano braccia. Segano piedi mangiati dal freddo. Gli alpini bestemmiano, piangono, affidano messaggi per i propri cari prima di morire. Alfredo sta malissimo. Arriva un medico, ancora una donna. «È un miracolo che sei vivo. Fai come ti dico e, forse, non morirai». Alfredo, che parla qualche parola di russo, capisce cosa deve fare. Primo: mangiare solo cibo masticato da altri. La flora batterica dell’intestino è a pezzi. Un semplice tocco di pane rischia di ucciderlo. Deve ingerire solo cose calde e “triturate” da altre bocche. Secondo: non muoversi, non alzarsi fino a quando non si sono riprese le forze. Passano molte settimane, la dottoressa va tutti i giorni a trovarlo. Un giorno gli dice: «Sei guarito, ma resti prigioniero. E non so dove ti porteranno». Lui per sdebitarsi le dipinge un quadro con una coda di cavallo usata come pennello: un’isba russa addormentata su un ruscello. Bellissimo. Il figlio Pierpaolo oggi ne ha una copia a casa.

NELLA E I GENERALI. Per lo Stato italiano è un disperso, ma Nella, sente che Alfredo è vivo. Nella non vuole che chi lo ha mandato per tre volte all’inferno si dimentichi di lui. Non passa giorno che non si presenti al Corpo d’armata in piazza 4 Novembre a chiedere notizie. Arriva senza appuntamento, apre le porte degli ufficiali senza farsi annunciare. È arrabbiata, furiosa. E più passano i giorni, più la rabbia aumenta. «Voglio notizie - incalza -. Voglio sapere dov’è. Voi lo avete spedito laggiù, voi avete l’obbligo e la responsabilità di dirmi che fine ha fatto. Lo dovete ad Alfredo, a me, ai miei figli».

Nessuno osa contraddirla, nessuno prova a cacciarla.

«Sapevano - racconterà più tardi - che in Russia era una carneficina. Non avevano neanche il coraggio di guardarmi negli occhi. Si sentivano in colpa».

A Bolzano in quei giorni così duri del gennaio 1943, arrivano le tradotte dalla Russia, con gli alpini italiani feriti o scampati dalla sacca del Don. Soldati senza braccia. Soldati senza gambe. «Tronchi che non hanno più niente di umano», racconta in lacrime il fratello di Nella, Dante, che ha il compito di controllare se tra loro ci sia Alfredo. L’unico legame che le resta con il marito è il the del Caucaso che lei usa anche per curare, salvandolo, il piccolo Lucio dalla difterite.

LE BOTTE DEI MONGOLI. Alfredo passa la prigionia da un campo all’altro della sterminata Russia asiatica: Tagikistan, Uzbekistan, Kazakistan, Azerbaigian. Sempre più a oriente, fino in Mongolia.

Non può mandare nemmeno una riga a casa per far sapere che è vivo. I mongoli di guardia sono di una durezza estrema. Un giorno lo bastonano sulla schiena solo per aver rivolto la parola al comandante del gulag. Le giornate trascorrono tra indolenza, fame e paura. È denutrito, quasi immobilizzato, ha fitte lancinanti a gambe e piedi dovute all’ipotermia. Ordini, punizioni, spostamenti continui da un campo all’altro. Ma c’è anche tanto tempo per riflettere con i compagni. Sul fascismo, sulla guerra, sui massacri. I russi mettono a disposizione libri: i classici del marxismo e della filosofia politica. Tra i soldati italiani cresce la consapevolezza dei crimini del regime, di essere stati traditi e usati da Mussolini.

UN MESSAGGIO ALLA RADIO. Alla fine del 1944, succede un fatto straordinario. Quasi un miracolo. Alfredo si trova in Uzbekistan.

“Radio Scarpa” dice che la guerra sta per finire, e che gli italiani torneranno a casa. Chiede a un capitano dell’Armata rossa di poter mandare notizie alla famiglia. Dopo mesi di no, arriva un sì. Il capitano gli dà una radio-trasmittente: «Sei un telegrafista, no? Fai quello che vuoi». Le mani tremano, afferra il microfono, cerca la frequenza giusta. E parla, parla, parla: «Sono Alfredo Dalla Vecchia, sono vivo, mi trovo in un campo di prigionia in Uzbekistan. Mando i saluti a mamma e papà di Malo, in provincia di Vicenza, e a mia moglie Nella Raffaelli Della Vecchia, con Lucio a Bolzano, in via Dolomiti ai Piani». Non sa ancora che a casa lo aspetta il secondo figlio, Bruno. Alfredo ripete più volte il messaggio. Il caso vuole che nel corso della notte viene captato da un frate di Merano. Il frate annota testo e indirizzo e all’alba si mette in viaggio per Bolzano. Da Terlano la fa a piedi, perché gli ultimi bombardamenti hanno distrutto la ferrovia. A metà mattina bussa alla porta di Nella Raffaelli. «Le porto una buona notizia: Alfredo è vivo, ho sentito la sua voce stanotte».

RITORNO A CASA. Il 25 aprile 1945 per i soldati italiani finisce la guerra. Gli alpini prigionieri in Russia lo sapranno solo alcune settimane dopo. Inizia il lungo viaggio di rientro dalla russia asiatica. Un viaggio interminabile e faticoso: in treno, a piedi, in slitta, sui camion. Molti moriranno. «Mi sentivo completamente svuotato - racconterà Alfredo - ero un automa. Andavo avanti per inerzia. Ero incapace di provare qualsiasi cosa. Tutto quell’orrore mi aveva indurito». Ma più si avvicina all’Italia, e più il cuore si scalda. «Piano piano riaffioravano i ricordi di casa. Dei miei genitori a Malo. Di Nella. Di Lucio. Sapevo che non dovevo mollare». Ma coi ricordi anche le paure: «Nella mi vorrà ancora? Mi avrà dimenticato? E se ha un altro? E se fosse morta sotto una bomba? Tre anni sono lunghi e la guerra distrugge tutto...». Il viaggio dura sette mesi. L’11 novembre del 1945 arriva a Bolzano con la tradotta degli alpini “russi”. Un treno di reduci che sembrano fantasmi. Alfredo ha il viso gonfio per le malattie, il corpo magro per la fame. E quella dannata domanda che è un’ossessione: «Cosa troverò?».

SONO TUTTO INTERO. Non ha il coraggio di andare subito a casa. Torna nel vecchio quartiere ai Piani, chiede notizie ad amici e conoscenti. «Come sta Nella? È viva? Dove abita? Non nascondetemi niente». Gli amici non sanno nulla, se non che ora Nella vive nelle case popolari di via Dalmazia. È l’imbrunire. Alfredo cammina in una città che non riconosce. Le strade buie e vuote. I palazzi sventrati dalle bombe. I muri crivellati dai colpi di mitraglia. La zona attorno alla stazione è un cumulo di macerie. Scende verso la Bolzano “operaia”. Arriva in via Dalmazia. Due domande, e individua la casa. Sono palazzi nuovi. Di salire ancora non se la sente. «Mi vorrà ancora? Si ricorderà di me?». Passano le ore. A sera tarda bussa alla porta dei vicini, dei vecchi amici di famiglia, i Franceschini.

«Chi è? - chiedono quelli preoccupati -. Chi arriva a quest’ora?».

«Sono Alfredo Dalla Vecchia, e vengo dall’inferno».

Maria Franceschini riconosce la voce, apre la porta e lo abbraccia. «Stai tranquillo Alfredo, è tutto a posto».

Lo scorta da Nella. Sono le undici sera. Nella racconterà in seguito di “aver sentito qualcosa allo stomaco”. «Mi sono svegliata di colpo perché avevo sbagliato a puntare la sveglia. Ho preso in braccio Bruno e gli ho detto “È arrivato papà”. Poi ho sentito bussare...».

Alfredo batte alla porta.

«Sono io», dice.

Nella non ha il coraggio di aprire: «Dimmi come sei, che sei tutto intero...».

«Nella - la rassicura lui che ha capito - ci sono, ci sono tutto..., aprimi».

Nella apre. Si guardano, si abbracciano. «È finita Alfredo, lo sapevo che saresti tornato».

Nella lo bacia e gli dà il bambino in braccio. «Questo è il tuo secondo figlio. Si chiama Bruno. Come mi hai lasciato ora mi ritrovi».

Nella e Alfredo sono stati insieme tutta la vita. Nella è morta il 2 giugno del 1990, Alfredo il 25 aprile 1993. Nel 1948 hanno avuto il terzo figlio, Pierpaolo. Che oggi, ha deciso di raccontare la loro storia in un libro: «So che tornerai», il titolo.













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