De Chirico, il soldato che per caso divenne stella del tiro a segno

Nato nell’isola di Ponza, dal ’55 risiede a Merano Ha vinto Mondiali e ha sempre sfiorato la medaglia olimpica


di Jimmy Milanese


MERANO. Giuseppe De Chirico, per gli amici basta Pino. Classe 1934, nativo di Isola di Ponza, nel mezzo del Mar Tirreno. Militare in congedo, dal 1955 residente a Merano, dove ha trovato l’amore e una carriera sportiva che lo ha portato a sfiorare una medaglia olimpica.

Insomma, maresciallo: Isola di Ponza, Bari, poi Merano, un bel salto.

«Sì, ma a Ponza rimasi solo per 4 mesi, poi, con la famiglia, ci trasferimmo a Bari dove mio padre lavorava per la Finanza di mare».

Subito dopo, in Italia scoppiò la guerra: cosa ricorda?

«Ero piccolo, a 6 anni accompagnai i miei fratelli maggiori alla stazione: mio padre partiva per la guerra in Africa. Un giorno tragico, memorabile ed emozionante, allo stesso tempo».

Da bambino aveva le idee chiare sul suo futuro?

«Per nulla. Alle elementari, dopo la guerra, c’era un disordine assoluto. Feci le scuole industriali, ramo elettrotecnico».

Finì il ciclo di studi?

«No, per fortuna. Mio padre mi disse che non ce la faceva a mantenermi agli studi. Dovetti smettere alla seconda. A quel punto, avevo 18 anni, sono entrato volontario nell’esercito. A circa 22 anni mi capitò un’occasione».

Ovvero?

«Ero del Genio militare, per caso iniziai a sparare, e devo dire che mi riusciva bene. A 25 anni mi chiamarono per la prima gara internazionale. Andammo ad Atene, e feci il record italiano di carabina».

Insomma, aveva trovato la sua strada?

«Eh, mica tanto. Non ho mai avuto un allenatore, ero completamente autodidatta del tiro a segno: mi sono accorto del talento, e i dirigenti del Coni, per fortuna, capirono che valeva la pena di insistere con me».

Adesso però iniziamo a parlare di Olimpiadi, ok?

«E iniziamo, allora. Venni convocato alla mia prima Olimpiade, Città del Messico 1968. Arrivai 21esimo nella carabina a terra. Forte emozione, davanti a me tutti i grandi atleti di quell’epoca. Era l’anno del pugno alzato di Smith e Carlos, l’8,90 di Beamon, ma anche il dorsale di Fosbury e la leggenda Klaus Dibiasi. Ero tra di loro, quasi da non credere».

Insomma, tutto faceva ben sperare per la Olimpiade del 1972 a Monaco. Invece?

«Mi ero laureato campione del mondo a Phoenix, in Arizona, nel 1970. A Monaco ero tra i favoriti».

Cosa accadde?

«Fino all’ultimo pensavo di vincere una medaglia, ma ebbi sfortuna. Arrivai quarto per un solo punto e per via di un regolamento che poco dopo sarebbe stato cambiato. Con quello, avrei fatto medaglia».

Monaco 1972 è stato anche terrorismo internazionale.

«Era l’alba. Il commando di palestinesi arrivò al campus, noi italiani eravamo lì, nelle stanze accanto agli israeliani. Tutti sanno come finì, fu una tragedia per loro, ma anche per lo sport».

Montreal 1976, altra Olimpiade: cosa accadde?

«Arrivai 60esimo in una giornata di vento forte, anche per i favoriti alla medaglia. Dipendeva tutto da dove ti mettevano sulla linea di tiro, e a me capitò quella più ventosa. Insomma, non c’era niente da fare».

Ci sarebbe stata la definitiva rivincita a Mosca 1980, invece?

«Sarei arrivato da assoluto favorito in quanto campione del mondo in carica. Purtroppo, poco prima ci comunicarono che per via del boicottaggio statunitense, in seguito all’invasione sovietica dell’Afghanistan, tutti gli atleti in divisa non avrebbero avuto il nulla osta».

Ad ogni modo, una carriera prestigiosa.

«Ho girato il mondo: le trasferte per nove anni consecutivi a Bucarest, il tempo che scorreva lentamente, le maniere che oggi non ci sono più».

Conobbe altri atleti?

«Uno su tutti, Abdon Pamich. Un galantuomo tra i più grandi marciatori di sempre».

Ricorda il giorno nel quale disse addio?

«Era il 1985, mi accorgevo che le condizioni psicofisiche non erano ottimali. Arrivò il momento di prendere quella decisione, ero a Zurigo, mi piazzai secondo, e volli finire in bellezza».

Una disciplina dura fisicamente, il tiro a segno?

«No, perché non comporta forza fisica, ma richiede enorme concentrazione e capacità di controllare le emozioni in ogni momento. Insomma, è come entrare in apnea e conseguire una simbiosi tra corpo, arma e vista».

E dopo il ritiro?

«Ho anche insegnato ai giovani della federazione. Giravo l’Italia ad allenare i ragazzi dell’epoca. Per un periodo, insegnai anche ad Anterselva al gruppo sportivo nazionale di biathlon».

Non ha ancora parlato di sua moglie.

«La conobbi a Merano nel 1963. Lei, perfettamente bilingue, io che come militare faticavo ad ambientarmi. Mi seguiva sempre, quando poteva. Posso dirlo, adesso che non c’è più, molto della mia carriera lo devo a Yolanda, al fatto di averla avuta accanto».













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