Don Olivo, da operaio a prete dei rioni 

I 50 anni di sacerdozio di Ghizzo: il lavoro alla Sicar, il primo amore e poi la vocazione


di Antonella Mattioli


BOLZANO. «Rimpianti? Forse mi manca la paternità. Un desiderio che comunque ho realizzato, anche se in maniera diversa, all’interno di una famiglia più grande che è quella della Chiesa». Seduto nella canonica della Chiesa di Regina Pacis, di cui è stato parroco fino al 2014, don Olivo Ghizzo, 82 anni, parla a ruota libera dei suoi cinquant’anni di sacerdozio. Una scelta fatta proprio quando la vita gli stava offrendo tutto quello che un giovane poco più che ventenne di allora poteva desiderare: un lavoro, una fidanzata e la prospettiva di un futuro agiato.

È stato ordinato sacerdote il 29 giugno del 1968 nel Duomo di Bressanone: «La prima messa in falegnameria», titolava l’Alto Adige nell’edizione del primo luglio. A mezzo secolo di distanza, esattamente domenica primo luglio, ricorderà l’anniversario con una messa, già programmata per le 10.30, a Regina Pacis. Parrocchia alla quale è rimasto molto legato anche dopo la pensione: ci torna ogni giorno per mangiare nella mensa degli anziani, voluta proprio da lui nei locali della parrocchia. Oltre che per accompagnare nell’ultimo viaggio le persone del quartiere. La sua vita, anche da pensionato, è super-impegnata, perché il vescovo Ivo Muser gli ha chiesto di fare il collaboratore pastorale della Visitazione e alla Sacra Famiglia.

Don Olivo, perché la prima messa 50 anni fa aveva scelto di celebrarla alla falegnameria Sicar di via Genova?

«Perché quello era stato il mio mondo per 11 anni: mi piaceva l’idea di tornare da sacerdote in mezzo a quelli che erano stati i miei primi compagni di lavoro. Alla Sicar ho cominciato a lavorare a 13 anni e mezzo e ci sono rimasto per 11 anni. Mio padre era stato chiamato da Sernaglia della Battaglia nel Trevigiano nella ditta bolzanina come capo della falegnameria. Lui, per la verità, avrebbe voluto tornare in Francia, da dove eravamo dovuti andarcene nel ’41. Ma mia madre preferiva restare in Italia».

Da operaio in falegnameria a sacerdote: una scelta favorita dalla sua famiglia?

«Non direi proprio. Ricordo ancora il pianto disperato delle mie tre sorelle; mio padre non era disperato ma sicuramente avrebbe preferito per me un futuro diverso. Mia madre l’aveva presa meglio di tutti, forse perché aveva capito che cercavo qualcosa di diverso da quello che la vita mi stava offrendo».

Come è maturata questa scelta?

«Intorno ai 22 anni mi sentivo tormentato da quella che in quel momento mi sembrava un’idea folle, avrei capito dopo che era la vocazione sacerdotale. Decisi di mettermi alla prova, per vedere se ero pazzo».

E cosa ha fatto?

«Mi sono licenziato dalla Sicar e sono andato in una grossa azienda di Torino. Guadagnavo 90 mila di lire al mese, vitto e alloggio compresi; contro i 40 della Sicar. In più la figlia unica del proprietario della ditta si era innamorata di me Lei era laureata, io avevo solo la terza media. Il futuro sembrava ormai segnato. È stato allora che mi sono chiesto: ma la vita è tutta qui?».

E ha mollato tutto?

«Sì. Sono andato a Trento e ho ripreso gli studi presso il Servizio per le vocazioni adulte. Non avevo una lira e il mio incarico era quello di pulire i gabinetti. Ciononostante ero felice come mai prima. Era la conferma che non ero pazzo, ma che avevo capito qual era la mia strada».

Prima parrocchia?

«Speravo che il vescovo mi mandasse a Pineta, perché lì abitavano tanti operai della Sicar che nel fine settimana lavoravano per costruirsi la casetta. Quello era il mio ambiente».

E invece?

«Mi mandarono ai Tre Santi, nel cuore di Gries abitato soprattutto da professionisti».

Dopo Tre Santi è stato parroco a Don Bosco e dal 1988 al ’96 vicario in Curia.

«In Curia mi aveva fortemente voluto il vescovo di allora Wilhelm Egger: per me è stato un periodo molto pesante. L’ufficio non è il mio ambiente, a me piace stare in mezzo alla gente».

Poi l’approdo a Regina Pacis dove è rimasto 18 anni: la cosa di cui va più orgoglioso?

«Non una ma due: il Teatro Cristallo con all’interno il centro giovani e il centro anziani. Un’istituzione diventata un punto di riferimento culturale per la comunità del quartiere. E la mensa per anziani ricavata nei locali della parrocchia, dove ogni giorno si ritrovano una trentina di persone. Non pensavo che tra gli ospiti un giorno ci sarei stato anch’io».

Parliamo della carenza delle vocazioni.

«Una volta i seminari erano pieni. Molti però ci arrivavano non per vocazione vera ma perché le famiglie non avevano da dare loro da mangiare e men che meno si sarebbero potute permettere di mandarli a studiare. Adesso chi entra in seminario lo fa in genere più avanti negli anni e quindi si tratta di scelte consapevoli».

Concedere ai sacerdoti la possibilità di sposarsi potrebbe essere una risposta?

«Difficile a dirsi. Può essere che in futuro si arriverà a questo come è possibile che si aprirà la via del sacerdozio anche alle donne. Nel Vangelo accanto a Gesù c’erano solo uomini, perché nella società d’allora la donna non contava nulla. Oggi non è più così».

E in attesa di queste aperture?

«A prescindere dal fatto che queste aperture ci siano o meno, bisogna assolutamente che i laici si mettano in gioco di più di quanto non abbiano fatto fino a questo momento».

Lei come vive la terza età?

«Ho una vena ironica che mi ha sempre aiutato nella vita a sdrammatizzare e a dare il giusto peso alle cose».

La morte non le fa paura?

«Dieci anni fa ho avuto seri problemi di salute, tanto che pensavo di andarmene e invece sono ancora qui. E comunque non mi fa paura. Mi conforta il passaggio del Vangelo in cui Gesù, venuta la sera, dice agli apostoli: “Passiamo all’altra riva”. Dove ci attende l’abbraccio del Padre».

Per chi crede c’è la speranza che non tutto finisca in questo mondo.

«Queste sono parole che devono rasserenare tutti, perché Dio è padre e non castiga, ma attende ciascuno di noi».

©RIPRODUZIONE RISERVATA















Altre notizie

Attualità