Elementari Goethe, un modello per i bimbi deboli in tedesco 

La scuola che cambia. Gli alunni linguisticamente meno attrezzati suddivisi pochi per classe, con insegnanti di sostegno In prima e seconda tutti i giorni un’ora in più di seconda lingua. Formulari e colloqui preventivi per conoscere bimbi e famiglie


Davide Pasquali


Bolzano. Formulari per conoscere i bambini, colloqui con i genitori, lezioni di supporto tutti i giorni alla seconda ora in prima e seconda, insegnanti di supporto in compresenza. È il modello Goethe per aiutare i bimbi meno attrezzati in tedesco, italiani o stranieri. Lo racconta Angelika Ebner Kollmann, preside in piazza Madonna dal 2003: «Noi abbiamo un concetto elaborato 7 anni fa. Un modello organizzativo e didattico di come formare e gestire le classi. Abbiamo visto che abbiamo alunni diversi, anche per capacità linguistica. Così formiamo le classi con criteri esclusivamente didattici e non di orario (tempo pieno o normale). All’inizio questo modello non era ben visto da tutti, insegnanti, genitori. Discussioni forti. Ansie. In pochi mesi il modello è partito, convince, funziona».

Formare le classi

È affare complesso. «Lo facciamo a fine luglio-inizio agosto, siamo un gruppo di 4 insegnanti. Noi già anni fa al momento delle iscrizioni chiedevamo informazioni ai genitori sulle capacità linguistiche dei bimbi. Anche se magari non si poteva farlo, noi l'abbiamo sempre fatto, perché siamo convinti sia importante. Non perché non voglio avere qui certi bambini, ma perché è importante valutare la situazione e poi creare delle classi il più ideali possibile». Una classe di soli bimbi deboli dal punto di vista linguistico non funziona. Non è possibile lavorare. «C’è chi magari pensa che possa funzionare, ma noi non siamo di questo avviso». Il primo anno che si sono poste queste domande «si vedeva che qualcuno era un po' irritato e le risposte a volte erano un po' creative e non tutto collimava con quanto scritto nei formulari. Poi, man mano, i genitori hanno compreso che non succede nulla e che, insomma, erano veramente informazioni importanti per la scuola. Così otteniamo elementi per valutare bimbi che a casa parlano solo tedesco, solo italiano, cinese o altro, o magari sono bilingui». Ora con le iscrizioni online è diventato davvero più difficile, perché i formulari sono standardizzati, valgono in tutte le scuole. «Qualche informazione c'è, ma non ci danno un grande aiuto. Allora invitiamo qualche genitore a parlare, nel caso in cui abbiamo un certa sensazione, che magari può essere anche sbagliata perché solo dai dati non è facile capire. In questa maniera cerchiamo di ricavare elementi, sulla base dei quali distribuiamo i bimbi dal punto di vista linguistico». Ci sono genitori «che vengono qua e vogliono parlare prima con noi». C'è una differenza su come le famiglie gestiscono questa situazione. «Qualcuno è molto conscio, riflette veramente, si fa dei pensieri, magari si rende anche conto di certe difficoltà che si possono presentare quando si intraprende questo percorso. Altri non si fanno tanti pensieri, desiderano senz'altro il meglio per il loro figlio, però magari riflettono poco. Purtroppo ogni tanto abbiamo esperienze dove per certi bambini probabilmente non era la decisione giusta. Noi facciamo quello che possiamo, ma poi...»

Il modello

Alle Goethe, 4 o 5 prime classi l’anno, in tutto 20-21 classi, niente sezioni speciali, in ogni classe coesistono tempo normale e prolungato. Chi è debole può scegliere il tedesco come materia facoltativa in più, due ore a settimana. Poi c’è l’Anfangsunterricht. «Per i bambini che vengono qui e veramente non sanno niente. Li portiamo fuori da tutte le classi, li mettiamo assieme, un'ora al giorno, alla seconda ora, e lì imparano dall'inizio la base della lingua. Frequentano due anni. Gruppi molto piccoli, tanto lavoro orale. La base per poter partecipare è la lingua. Una certa base devi averla per poterti inserire nel gruppo. Dico spesso ai genitori: immaginiamo, per fare un esempio, adesso vado in Cina e mi siedo lì in una classe, 40 ore la settimana, sono lì e non so una parola. Così possiamo immaginare come si sente un bambino. Ne abbiamo 10-15 l'anno, divisi in due gruppi, che partono da zero. C’è chi viene dall’estero, altri continenti e alfabeti».

Fraintendimenti

Ciò che ogni tanto viene frainteso, prosegue la preside, «è che noi non siamo una Sprachschule. Qualcheduno pensa: anche se mio figlio non sa niente lo porto lì, così impara il tedesco. Ma noi dobbiamo anche raggiungere degli obiettivi didattici. Tutte le materie vengono insegnate in tedesco perciò, se non hai una base, hai difficoltà. Questo a volte viene frainteso da certi genitori. C'è qualcuno che prepara i bimbi prima, che ha idee chiare, qualcun altro arriva qua e... Noi parliamo con questi genitori, ma non è sempre facile. A volte non vogliono sentire ciò che gli diciamo. Ma noi parliamo per esperienza. Può funzionare molto bene, ma può anche non funzionare. Non è solo la scuola a gestire la situazione». Di regola chi arriva alle Goethe ha frequentato l’asilo tedesco, altre poche volte no, «e allora è veramente difficile». È questo l’iter con più chance di successo. «Però va anche detto che siamo in ambiente italiano, qui in città. La maggior parte della gente parla italiano. Perciò dobbiamo anche renderci conto che anche in questi gruppi, sia qui a scuola sia negli asili, i bimbi è facile che parlino in italiano. Se io genitore decido di portarlo all'asilo tedesco, non è detto che poi lì parli in tedesco, perché il bimbo che non ha la capacità, non è sostenuto da casa, prende la strada più facile e parla la sua lingua». A fine elementari, «per i bimbi la strada si divide. Alcuni tornano alla scuola italiana, perché vedono che non era così facile quel percorso, e hanno paura che alle medie possa non andare bene. Qualcuno torna indietro. Chi ha fatto un bel percorso, invece, prosegue. Abbiamo risultati bellissimi; è molto personale, non puoi mai generalizzare. Dovresti anche poter dire: forse ho sbagliato, ma non tutti lo sanno dire. Qualcuno ha difficoltà a farlo. I genitori vogliono sempre il meglio per i loro figli, è questo che li porta a certe decisioni. Però a volte, purtroppo, non sanno valutare bene. Un esempio: parlo con un bimbo, qui in ufficio assieme a mamma e papà. Chiedo cose semplici: wie geht es dir? wie heisst du? gehst du Kindergarten? e non succede nulla, mi guarda con due occhi, spaventato. Poi gli rivolgo le stesse frasi in italiano e inizia a raccontare. E allora ai genitori dico: avete capito cosa intendevo?»













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