Il compleanno di Messner: «I miei primi 70 anni. Belli e pieni di vita»

Festeggerà inaugurando il museo a Plan de Corones. «Non mi arrampico più come quando ne avevo 20, ma ho ancora tanti sogni e nuovi progetti»



Come festeggerà?

«Farò una festa con un centinaio di amici in una malga, in montagna, in quello che per me è il posto più bello dell’Alto Adige. Ma non sarà il 17 settembre, perché quello è un mercoledì e i miei amici, anche se in molti casi hanno più di 70 anni, lavorano tutti ancora. Il 17 sarò però a Plan de Corones, perché il gruppo delle funivie inaugurerà il mio ultimo Museo, il sesto, che sarà la fine del mio lavoro culturale»

E dopo: ha già nuovi progetti?

«Certo, ne ho in mente già due o tre. Sono felice di essere sano e di poter continuare a lavorare».

Qualche anticipazione su quello che intende fare.

«Top secret, per il momento».

I settant’anni non li sente?

«Certo che li sento. Non arrampico più come a 20 anni, non ho il fiato dei 30, non ho la capacità di soffrire dei 40».

Ma l’entusiasmo è quello di una volta.

«È così. Faccio un’attività che è adatta per la mia vecchiaia. Anche se oggi non mi sento né giovane né vecchio, però ho capito che certe cose non posso più farle, anche perché la mia memoria, la mia capacità di concentrazione non sono più quelle di una volta. Però questo fa parte del diventare vecchi. Invecchiare è un’arte, bisogna impararlo come s’impara a vivere».

Lei è un sostenitore del prolungamento dell’attività lavorativa?

«Certamente. Finché uno ha la capacità di realizzare i propri sogni lasciamolo fare».

In questo modo però i giovani rischiano di non entrare mai nel mondo del lavoro.

«I giovani, a mio avviso, non è che non trovano lavoro, perché ci sono persone che a 70 anni sono ancora attive. Forse, la verità è un’altra: i giovani non trovano un’occupazione, perché ci sono burocrati che stanno troppo a lungo in certi posti e non fanno nulla. Chi crea posti di lavoro sono gli imprenditori, quelli che hanno visioni».

A proposito di imprenditori: i suoi cinque Musei, sei con quello che aprirà a Plan de Corones, vivono con i contributi pubblici oppure no?

«Nessun contributo pubblico. Credo che siamo gli unici, dal Brennero alla Sicilia, ad essere autosufficienti. Ed è così che deve essere».

Quanti visitatori avete?

«Tra i 50 e i 70 mila all’anno. Tutte persone che arrivano in Alto Adige per visitare specificatamente i Musei di Messner e rimangono qui in media una settimana. A beneficiarne più che i Musei è ovviamente il turismo di questa terra che deve sempre più puntare sul binomio: montagna-cultura. La montagna, da sola, non basta più».

Con l’inaugurazione del sesto Museo si chiude quindi una stagione: passerà la mano a qualcun altro?

«Resterò come super-visore, ma vorrei passare la gestione della società a qualcun altro. Quasi sicuramente sarà una donna. Preferisco lavorare con le donne, il 70% delle mie collaboratrici sono donne».

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A settant’anni lei ha qualche rimpianto?

«No. Mio figlio Simon qualche tempo fa ha trovato un mio vecchio quaderno con un centinaio di schizzi di prime vie che avrei voluto fare. Avevo annotato tutte le caratteristiche delle pareti che studiavo usando il binocolo. Nel frattempo alcune sono state fatte, ma non ho rimpianti di non essere stato io ad aprirle. Evidentemente era destino che andasse così. Nella mia vita ho imparato più dai fallimenti che dai successi».

Dei suoi quattro figli qualcuno ha ereditato la passione per la montagna?

«Solo Simon che studia biologia e vorrebbe lavorare nel campo della bio-genetica. Làyla vive in Canada, Magdalena ha ereditato da me la passione per scrivere libri, Anna la più piccola ama sciare».

Le capita ancora di arrampicare?

«Sì, con mio figlio. Mi piace tornare su qualche via classica. Adesso è lui il primo di cordata e qualche volta mi rimprovera di allenarmi poco. Per me comunque è anche l’occasione per vedere com’è cambiato in questi anni il mondo dell’alpinismo».

L’alpinismo tradizionale quello di cui lei è stato un grande sostenitore, è sempre meno praticato.

«È così: una volta ero molto critico, oggi accetto i fatti. Se ai miei tempi sul Civetta in una giornata d’estate c’erano 30 cordate, oggi non c’è più nessuno. L’alpinismo è diventato uno sport. Si pratica in palestra, dove ci sono vie anche molto impegnative, ma scalare in ambiente alpino è un’altra cosa. Perché non sai se quel chiodo terrà, hai l’incertezza del tempo che non sai se cambierà da un momento all’altro, e c’è sempre il rischio che si stacchi una scarica di sassi. In Himalaya poi l’alpinismo si è trasformato in turismo: chi può pagare, viene portato in cima all’Everest ».

Molti dei grandi dell’alpinismo sono morti, lei come ha fatto a sopravvivere?

«Fortuna, sicuramente. Ma non solo. Io non ero né più bravo né più veloce di altri, ma avevo una sorta di sesto senso che mi consentiva di capire in anticipo i rischi. Credo di aver acquisito questa sensibilità speciale perché ho cominciato ad arrampicare che ero un bambino. Ho iniziato vicino a casa nel gruppo delle Odle, poi sono arrivate le grandi pareti dolomitiche».

La volta che ha avuto davvero paura?

«Tante volte, ma per un breve periodo. Mentre sul Nanga Parbat, nel 1970, quando nella discesa mio fratello Günther è morto travolto da una valanga, ho vissuto una settimana di disperazione totale, cercando di scendere a valle».

Qual è l’ultimo ricordo che ha di suo fratello Günther?

«Me lo ricordo giovane, forte, pieno di entusiasmo. Quella era la nostra prima spedizione in Himalaya: ci eravamo preparati molto bene».

Nel film su di lei i fratelli bolzanini Martin e Florian Riegler hanno fatto la sua controfigura e quella di Günther, si è ritrovato in quelle immagini?

«Sono molto bravi a scalare e mi sono piaciuti nelle immagini in cui arrampicano. Mentre mi piacciono meno quando recitano, non è il loro lavoro».

Quali sono gli alpinisti di ultima generazione che più le piacciono?

«Hansjörg Auer, un austriaco, protagonista di imprese incredibili, anche in Alto Adige. E poi David Lama, nepalese 23 anni, che ha fatto cose eccezionali sul Cerro Torre. Tra gli italiani mi piace molto Simone Moro, un alpinista molto forte, che ha organizzato un sistema di soccorso con l’elicottero in Himalaya, riuscendo a salvare vite oltre i 7 mila metri, ovvero dove nessuno era mai arrivato».

Cosa pensa del clima che si respira oggi in Alto Adige.

«Molto buono, italiani e tedeschi oggi sono più uniti che in passato e difendono l’autonomia che ha nno conquistato assieme. Il merito è in gran parte di Durnwalder che ha trasformato una terra povera in una terra ricca e contrariamente a Magnago, che pensava ad un’autonomia solo per i tedeschi, ha lavorato perché ne beneficiassero entrambi i gruppi».

Lei è un grande estimatore dll’ex presidente Durnwalder, questo giudizio vale anche per il suo successo Kompatscher?

«È giovane, ha ottenuto 86 mila voti, ha idee chiare, lo rispetto tantissimo. Spero solo che da domani cominci a governare, in questo momento è tutto bloccato. Me ne rendo conto anch’io, nel mio piccolo».

In che senso?

«La giunta Durnwalder mi aveva dato il via libera alla realizzazione di un cinema a Castel Firmiano, ci sono anche i finanziamenti, manca solo la firma del nuovo presidente, ma, lo ripeto, è tutto fermo».

Cosa pensa dello scandalo dei vitalizi d’oro?

«È uno scandalo reale e gravissimo. Ma è stato parzialmente costruito e usato da qualche giornale per bloccare questa terra. Kompastcher non ha alcuna responsabilità in questo caso. Se il Dolomiten, mi dispiace dover dire il nome di un giornale, ha sperato di cancellare questo governo e bloccare Kompatscher, spero che si sia sbagliato. Mi è piaciuto quando, durante la presentazione del bilancio, ha detto che no n si fa condizionare da gruppi editoriali».

Secondo lei cosa dovrebbero fare i politici, restituire i vitalizi d’oro?

«Devono trovare una soluzione, perché quello che è successo è inaccettabile».

 













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