“Il detonatore? L’avevo in tasca per caso”: il processo Frick-Sandrini

Un finto supertestimone “imboccato” mina la credibilità dell’accusa, ma le prove sono tante e schiaccianti. Quanto ai mandanti, solo ipotesi. E il “solito” filo rosso che porta in Germania


di Paolo Cagnan


BOLZANO. La prima udienza del processo contro Franz Frick e Dieter Sandrini si tiene nel febbraio 1988, a poco meno di un anno di distanza dal duplice arresto. La tensione si taglia a fette. Il tribunale (Martinolli presidente, Bruccoleri e Fliri giudici a latere) ha il compito di giudicare gli unici due presunti terroristi che i carabinieri siano riusciti ad arrestare. Si respira un'aria pesante, anche perché da quando Frick e Sandrini sono finiti in carcere, gli attentati non sono cessati, e la stampa di lingua tedesca continua a parlare di oscure trame dei servizi segreti italiani.

Il processo nasce tra le polemiche. Il pubblico viene schedato prima di poter fare l'ingresso nell'aula: vengono trascritte le generalità ricavate dai documenti d'identità. I carabinieri controllano le borse e fanno passare tutti sotto il “giogo” dei metal-detector. L'accusa principale riguarda cinque attentati per i quali la procura della repubblica ritiene di avere trovato prove a sufficienza: sono quelli contro l'Hotel Palace, il pullman targato Matera, le abitazioni di Mitolo e Ferretti e l'attentato contro la Volvo targata Padova, parcheggiata vicino al tribunale di Bolzano.

Il primo atto prevede l'interrogatorio di Frick. “Sì, è vero, ho conosciuto Kienesberger, ma cosa vuol dire? Degli attentati non so proprio nulla, così come non so nulla dell'esplosivo trovato vicino alla falegnameria e delle cento cartucce parabellum rinvenute nella mia auto” . Il falegname ribadisce la sua innocenza e per giustificare il possesso della “piantina del terrore” ripete quell'incredibile storiella già raccontata nella prima fase dell'istruttoria: “Tra il Natale del 1986 e i primi giorni dell'87, un giorno che non ricordo, ho incontrato un tizio in piazza Municipio a Bolzano. Lui mi ha chiesto alcuni indirizzi, ma io gli ho risposto di andarseli a guardare sull'elenco telefonico. Poi però mi sono ricordato che lì vicino, in via Grappoli, c'è lo studio del mio amico Sandrini, sono andato da lui e su un foglietto di carta mi sono fatto fare uno schizzo con la piantina per localizzare quegli indirizzi. Volevo darla allo sconosciuto, ma poi ci ho ripensato, e mi sono distrattamente rimesso in tasca quel foglietto”.

Già, una sbadataggine. Quel signore sconosciuto doveva essere davvero un tipo strano, per avvicinare Frick e chiedergli gli indirizzi del democristiano Ferretti e dei fratelli Mitolo, oltre alla dislocazione della sede del Msi e del monumento alla Vittoria.

Alla seconda udienza, il 14 gennaio, l'accusa cala il suo asso nella manica: un supertestimone in grado di scardinare le tesi della difesa. Si tratta di un cittadino austriaco. La sua testimonianza sarà uno dei grandi misteri di cui parleranno poi gli innocentisti, nel tentativo di dimostrare la tesi del complotto.

L'austriaco si chiama Albert Naujocat, ha 33 anni ed è residente a Innsbruck. Inseguito da un ordine di cattura spiccato dalla magistratura di Vienna per varie truffe, viene arrestato a Vipiteno il 20 ottobre dell'87, alla stazione ferroviaria. I carabinieri gli trovano addosso una pistola lanciarazzi e scoprono poi che è in possesso di numerosi documenti contraffatti, uno dei quali attesta la sua falsa cittadinanza italiana. Come i militari siano giunti all'arresto di Naujocat - appena sceso dal treno - non si è mai saputo. Forse, un normale controllo. Il tirolese viene trasferito nel carcere di Bolzano e alloggiato nella stessa cella che ospita Dieter Sandrini. La convivenza dei due durerà solo qualche settimana. Passati alcuni giorni dal trasferimento a Bolzano, l'austriaco chiede di parlare con la polizia.

Cosa dice Naujokat?

“Dalle confidenze fattemi dal noto Sandrini Dieter, con cui condivido la cella da circa una settimana, posso dire quanto segue: l'organizzazione che compie gli attentati dinamitardi e che è in via di ulteriore sviluppo è articolata su piccole cellule composte di due o tre persone che operano nei comuni dell'Alto Adige ove sono situate in particolare stazioni dei carabinieri con organico ridotto. Al di sopra di questa struttura esiste un organismo composto da non più di cinque persone che terrebbe i collegamenti con le piccole cellule. Questa struttura è stata creata per evitare l'errore commesso negli anni Sessanta, dove la conoscenza delle persone coinvolte era molto più estesa tra la popolazione”.

Questo, dunque, l'asso nella manica del pubblico ministero Vincenzo Luzi, che all'apertura della seconda udienza chiede la citazione del superteste. “La difesa insinua la tesi del complotto, per noi invece è tutto chiaro, chiarissimo - tuona Luzi -, anzi la testimonianza del Naujocat è molto coraggiosa”.

La difesa sospetta che al giovane truffatore austriaco qualcuno abbia offerto - in cambio di collaborazione - la scarcerazione e un passaporto in regola. E in effetti c'è chi sente puzza di bruciato, anche tra gli stessi inquirenti. Giancarlo Massaroti, vicequestore della Digos, scrive il 14 dicembre al procuratore capo, Mario Martin: “Si soggiunge, infine, che l'Ufficio ha appreso che il summenzionato Naujokat Albert sarebbe persona di dubbia moralità in genere, di scarsa affidabilità e opportunista. Non è escluso che lo stesso abbia rilasciato le dichiarazioni di cui sopra nel mero interesse di eludere la sua eventuale estradizione verso l'Austria” .

Ma chi lo ha imboccato?

La seconda udienza si conclude con l'interrogatorio di Sandrini, che si trova costretto a confermare la storiella raccontata ai giudici da Frick e a negare di essersi confidato con Naujocat. Fine del secondo atto: l'udienza viene aggiornata a tre giorni dopo. E’ la volta delle perizie. Protagonista del terzo atto, il 18 gennaio, è il colonnello dell'esercito Lorenzo Golino. “Quella che è stata trovata a Meltina - spiega - è una miccia atipica. Non è di fabbricazione italiana, lo si può affermare con assoluta certezza. Ed è lo stesso tipo di miccia che è stata utilizzata per l'attentato all'Hotel Palace, per quello alla Volvo parcheggiata vicino al Tribunale, per le bombe fatte esplodere davanti alle case di Mitolo e Ferretti e sotto l'autobus targato Matera” .

Le analisi tecniche sui reperti raccolti, dice Golino, lasciano ben poco spazio ad altre ipotesi. La miccia, del tipo a lenta combustione e di colore azzurro, proviene sicuramente dall'estero. Anche l'esplosivo, prosegue Golino, è di un tipo, come dire... singolare. Non è ad alto potenziale, ma è stato comunque collocato in modo tale da poter provocare lesioni micidiali. Le bombe, insomma, potevano uccidere. Parola di perito. Quanto alle cento cartucce calibro 9 parabellum trovate dai carabinieri nel bagagliaio della Bmw rossa del Frick, Golino spiega che sono di fabbricazione danese e di destinazione militare. Ma allora, signor perito, possiamo affermare con certezza che gli ogivali di ghisa trovati a Meltina sono identici a quelli fatti esplodere nei mesi precedenti? “Esistono evidenti analogie concettuali e costruttive”. Una stessa mente e le stesse mani hanno concepito e fabbricato quegli strumenti di morte.

Il processo viene aggiornato.Trascorre circa un mese tra la terza e la quarta udienza, che si tiene l'8 febbraio. Mantenendo fede alle aspettative, anche questo nuovo atto del processo dispensa tensione e colpi di scena a piene mani. Dopo il colonnello Golino, a deporre viene chiamato il secondo perito d'ufficio. E’ Marco Morin, un nome noto negli ambienti giudiziari italiani. Ha perfezionato la propria specializzazione balistica a Londra, presso Scotland Yard. In quei giorni si trova sotto inchiesta a Venezia, accusato di frode processuale dal giudice Felice Casson “per aver falsificato alcune perizie sulla strage di Peteano” e di peculato, “per aver fatto sparire alcuni reperti già depositati”. Nonostante sia stato in passato consulente di parte sia della mafia, sia delle brigate rosse (Morucci e Faranda per il delitto Moro), Morin è accusato di simpatie per l'estrema destra, ma soprattutto di collusione con i servizi segreti italiani.

Quale migliore occasione per un nuovo attacco da parte della difesa? I patrocinatori di Frick ne chiedono l'immediata ricusazione: “Da uno così non ci si può che attendere altre falsità e menzogne” . In realtà però, a complicare le cose per le tesi difensive ci pensa proprio Franz Frick, con un incredibile autogol che spiazza un po' tutti, accusa compresa. Il falegname, che aveva sempre affermato di essersi messo in tasca il detonatore senza sapere cosa fosse – “L'ho visto e raccolto così, più che altro per curiosità” - ammette in aula di avere sempre avuto in tasca. Dal canto suo, Morin conferma e fa proprie le valutazioni già espresse da Golino, ribadisce che esplosivo e miccia per gli attentati provengono sicuramente dall'estero e svela un piccolo giallo, relativo alla sparizione del detonatore che era stato repertato. “Per poter eseguire la perizia - sostiene davanti ai giudici - è stato necessario farlo esplodere”.

Per Vincenzo Luzi, il pubblico ministero, è tutto chiaro. Sandrini è la mente di molti progetti, Frick l'esecutore materiale. “Indegno e scorretto” viene definito il comportamento della difesa, “che ha tentato di screditare i periti d'ufficio senza neppure nominare un consulente di parte”. E questo, proprio perché non avrebbe potuto che confermare, suo malgrado, le conclusioni di Golino e Morin. “Se non c'è scappato il morto - dice Luzi - è solo perché la fortuna non ha mai abbandonato i terroristi. Queste sono bombe che ricordano la strage di Bologna, l'Italicus” . Infine le richieste: otto anni di carcere per Frick, nove e mezzo per Sandrini.

La sentenza arriva il 12 marzo, dopo cinque ore di camera di consiglio: Frick e Sandrini vengono riconosciuti responsabili degli attentati contro il pullman targato Matera e le abitazioni di Remo Ferretti e Andrea Mitolo. Ad entrambi, sette anni di carcere. Il processo d'appello si svolgerà nove mesi dopo, sulla falsariga di quello di primo grado. La sentenza, emessa dalla corte d'appello di Trento il 6 dicembre '88 confermerà la decisione del tribunale di Bolzano con un'unica variante: Sandrini si vede ridotta la condanna di sei mesi, perché assolto per insufficienza di prove dall'accusa di compartecipazione all'attentato di Merano contro il pullman. Il collegio di difesa incasserà anche questa seconda sconfitta, ma non rinuncerà al ricorso per Cassazione.

Anche la suprema corte riconoscerà la colpevolezza dei due, confermando il 27 settembre '89 la validità della condanna inflitta dai giudici di Trento. Sia Frick, sia Sandrini usufruiranno via via di indulti, condoni e sconti di pena per buona condotta. L'arredatore di Caldaro sarà scarcerato il 24 dicembre del 1990, il falegname di Meltina tornerà libero due mesi più tardi, il 18 febbraio del 1991. Sandrini si vedrà condonare il 6 febbraio '91 dalla corte d'appello di Trento la pena residua di un anno e otto mesi e, successivamente, anche la libertà vigilata. Frick usufruirà il 16 gennaio '91 di un condono di due anni. In definitiva, i due attentatori sconteranno in carcere circa quattro anni a testa.

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