Il fascicolo rosso di Mayr-Nusser

Spunta l’atto di opzione. Obermair: «Gesto di Resistenza, la beatificazione non lo svilisca»


di Luca Fregona


BOLZANO. Un fascicolo rosso tra centinaia, migliaia di grigi. Contiene l’atto di opzione per il mantenimento della cittadinanza italiana di Josef Mayr-Nusser. Data: 27 dicembre 1939, il giorno del suo 29esimo compleanno. Lo ha trovato tra i faldoni il direttore dell’Archivio Storico della Città Hannes Obermair. Il documento è stato scelto dall’Archivio come “oggetto del mese” in vista della cerimonia di beatificazione di Mayr-Nusser in Duomo. È consultabile da tutti, presso gli uffici nell’Antico municipio, o in rete, sul sito web dell’Archivio. «Quella cartellina rossa - racconta Obermair - si staccava come un pugno verso il cielo da un mare di fascicoli grigi, il colore di chi, invece, aveva scelto l’espatrio nel Terzo Reich». Mayr-Nusser è stato uno dei pochissimi sudtirolesi a vedere nell’atto d’opzione un gesto di resistenza e ribellione politica. «E il fatto che la firma l’abbia apposta il giorno del suo compleanno, dimostra quanto la scelta sia stata importante, solitaria e anche sofferta». Josef Mayr-Nusser aveva solo 29 anni, ma aveva già capito tutto. Aveva letto il “Mein Kampf” di Hitler e il “Mito del XX secolo” di Rosenberg, che teorizzava la supremazia della razza ariana. Optare per l’Italia non fu facile: Mayr-Nusser aveva sofferto la politica di italianizzazione forzata del fascismo, il divieto dell’uso della lingua, la sopraffazione quotidiana. Scelse il male minore. «Decidere di essere un “Dableiber”, uno che si rifiutava di aderire alla Germania nazista - sottolinea Obermair - fu un atto di estremo coraggio e di grande anti-conformismo in una società che in buona parte vedeva Hitler come un liberatore. Non tutti quelli che optarono per la Germania erano nazisti, ma decisero comunque di rimanere immobili alla finestra». Seguire l’onda per non avere problemi. «Per Mayr-Nusser il fascicolo rosso fu una scelta consapevole e anti-totalitaria. Una denuncia morale, umana, e politica». Il prossimo 18 marzo verrà proclamato beato. La Chiesa dopo 70 anni di imbarazzi e sensi di colpa gli rende omaggio, «ma così - avverte Obermair - si rischia di farne un santino, depotenziandolo».

Confinandolo in un ambito puramente religioso?

«Il pericolo c’è. Per sua natura, la beatificazione è un processo che segue logiche quasi esclusivamente ecclesiastiche. Invece Mayr-Nusser era un personaggio complesso. Rinchiuderlo in una dimensione solo religiosa rischia di svilirlo, di spogliarlo della sua elevata qualità politica».

Le convinzioni religiose sono state però la molla del suo rifiuto al nazismo...

«Vero. Lui motiva il suo “no” anche con la fede cristiana. Ma non era uno sprovveduto. Aveva letto i testi “sacri” del nazismo. Sapeva interpretare il suo tempo. E disse “no” in un’epoca in cui la Chiesa era connivente. Lui era praticante, credente, un dirigente dell’Azione cattolica e della San Vincenzo. I vescovi andavano a benedire fasci littori e croci uncinate. Il vescovo di Bressanone Geisler aveva optato per la Germania. Il vescovo di Trento Celestino Enrici appoggiava Mussolini. Papa Pio XI aveva firmato i Patti lateranensi. Mayr-Nusser doveva confrontarsi tutti i giorni con una Chiesa complice».

Mettendosi in contrasto con le gerarchie...

«Certo. Per questo, quando nel 1944 viene arruolato di forza nelle SS nonostante l’opzione per l’Italia, il suo “no” a Hitler è l’azione più coraggiosa e solitaria che si possa immaginare. Non ha dietro il Papa o il suo vescovo a proteggerlo. È completamente solo. La sua scelta si basa sulla legge morale kantiana. Una legge morale assoluta, etica, autonoma, libera da condizionamenti. E non c’è atto più politico di questo. Mayr-Nusser mette in pratica il diritto dell’individuo a dire no, anche se intorno tutti dicono sì a capo chino».

La beatificazione in qualche modo lo “addomestica”?

«Mi limito a osservare che nel flyer della curia che annuncia la cerimonia del 18 marzo non compaiono nemmeno una volta i termini nazionalsocialismo e dittatura. C’è solo scritto: “Condannato a morte dopo il rifiuto di prestare il giuramento alle SS”. Spero che in questi giorni la diocesi corregga il tiro... Temo una lettura semplicistica, riduttiva che non renda giustizia allo spessore dell’uomo».

Quella del martire cristiano?

«Non deve andare perso anche il suo profilo civile, laico e politico nel senso più ampio. Che è quello di un cittadino che di fronte all’autorità che diventa totalitarismo, si assume la responsabilità di agire e il diritto di opporsi. Questo lega Mayr-Nusser alle grandi figure della Resistenza del Novecento. Mayr Nusser non cercava il martirio, amava la vita, ma era pronto a morire se fosse stato necessario».

Come altri resistenti, partigiani e non...

«Esatto. Poi c’è un’altra cosa: con la beatificazione, viene messo in secondo piano anche il ruolo della moglie, Hildegard Straub. Che invece ebbe un’importanza fondamentale nella scelta di Mayr-Nusser. Condividevano tutto, erano legatissimi. Non dimentichiamoci che nel 1943 nasce il loro unico figlio, Albert. La scelta, radicale, di Josef viene maturata insieme. Perché capiscono la gravità del momento storico. Gli altri deviano lo sguardo, loro no. La Città di Bolzano ha peraltro negli anni scorsi, nello spazio pubblico del territorio cittadino, laicamente ricordato e valorizzato la memoria pubblica di entrambi, Josef e Hildegard».

Per quanto limitata a poche persone, esisteva anche in Alto Adige una resistenza cattolica tedesca...

«Il termine più corretto forse è “resilienza”. Erano dei gruppi che riuscivano a trovare la forza per non farsi schiacciare e assorbire dal conformismo filo-fascista e filo-nazista. Si trattava di sacerdoti di base, come don Ferrari, a cui Mayr Nusser era molto legato».

Mayr Nusser ebbe anche un ruolo educativo importante.

«Sì. Non sappiamo ancora fino a che livello di profondità si spingesse nell’analisi politica con i giovani delle parrocchie. Ma è accertato che il suo obiettivo era quello di stimolare una coscienza civile, anche utilizzando la lingua madre, il tedesco. Sfruttava gli spazi che aveva per formare i giovani al di fuori dei dettami dell’educazione totalitaria. Li allenava a pensare con la propria testa, ad avere una mente critica. Che di per sé era già un atto “sovversivo”. Andava oltre il puro elemento liturgico della catechesi».

Mayr Nusser muore di stenti sul treno merci che lo porta a Dachau per essersi rifiutato di giurare a Hitler. Com’è stata trattata la sua figura dopo la Liberazione?

«I “Dableiber” nell’immediato dopoguerra erano funzionali alla Svp, che doveva presentarsi come un partito fondato da anti-nazisti. Mayr Nusser era un capitale enorme: dimostrava che anche qui c’era stato chi si era opposto a Hitler... »

Ma...

«Finì nel tritacarne delle logiche post-’45. Venne inserito, in quanto “Dableiber”, in qualche modo nell’elenco di quelli che più tardi Alexander Langer definirà “ethnische Verräter”. I “traditori etnici” che sfuggivano alla dicotomia italiano-tedesco, alla società divisa in blocchi. Mayr Nusser era troppo scomodo in vita, e rimase scomodo anche da morto. Con il suo sacrificio ricordava a tutti gli imbarazzi, i silenzi, e le complicità del passato. Poteva essere rivalutato, sì, ma solo in termini “ecclesiastici”, come martire cattolico. Il suo ruolo politico venne riconosciuto solo nel 1979 con il libro di Reinhold Iblacker, tradotto nel 1990 in italiano proprio dal figlio Albert».

La beatificazione da parte della Chiesa però è meglio del silenzio...

«C’è un aspetto positivo: ricordare l’uomo, l’aspetto culturale, e di fede. Ma è anche compito della Chiesa non sottovalutare l’aspetto laico dell’azione di Mayr Nusser, togliendolo alla società civile a cui apparteneva. Sarebbe un grave errore se la Chiesa sacralizzandone la memoria dicesse: “è un martire, appartiene in primis a noi”. Di più: la Chiesa dovrebbe sfruttare l’occasione per riconoscere il proprio fallimento davanti alla dittatura, censurando il comportamento dei vescovi Enrici e Geisler».

E ora?

«Spero che Mayr Nusser non venga messo in un cassetto, e poi chiuso a doppia mandata dalla Curia».













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