l'intervista

Muser: «Sono vescovo da tredici anni. Una sfida sempre più difficile» 

Alto Adige in crisi. «C’è sempre più “io” e sempre meno “noi”. La nostra società non è più abituata a dialogare». Fra i cantieri aperti: abusi, ruolo della donna, crisi delle vocazioni. Ma anche il problema della carenza degli alloggi


Davide Pasquali


BOLZANO. «Sono vescovo, adesso, da quasi tredici anni. È diventato più complicato».

A confessarlo è monsignor Ivo Muser, ospite in redazione per un dialogo serrato, profondo, su numerosi temi legati a spiritualità, religione, etica e morale, condotto dal direttore dell’Alto Adige Alberto Faustini.

Con un focus sull’Alto Adige di oggi: concreto, reale. Problematico. Una provincia dove, a detta del vescovo, «c’è tanto io e sempre meno noi».

Vescovo Muser, com’è cambiato il suo gregge?

«Io non vedo qui in Alto Adige che tutti ce l'abbiano contro la Chiesa, contro il vescovo, contro i sacerdoti. Non vivo un clima anticlericale, ma il legame verso la Chiesa è cambiato. Il legame personale e poi anche comunitario, questo sì. Il Papa spesso parla non soltanto di un’epoca che cambia ma di un cambiamento d’epoca proprio dall’interno. Per esempio, anche quello che ha detto sulla spiritualità. Tante volte mi chiedo: ma spiritualità oggi che cosa significa? Tutto e niente. Tutti in cerca, ma poi anche in cerca molto molto soggettiva, individuale. Parto dai miei presupposti e li vendo come la verità. C’è anche l'incapacità, all’interno della nostra società, di mettersi in dialogo. Tanti punti di vista, ma che non dialogano fra loro. E tutto questo lo vediamo anche all'interno della Chiesa».

Anche ai piani alti?

«Se pensiamo al livello più alto, il Papa; è ben diventato difficile, fare il Papa. Veramente sarà stato difficile sempre, ma adesso... Esiste il detto Roma locuta, causa finita, ma oggi non è per niente così. Il Papa dice una cosa e, poi, incomincia il dibattito, mentre prima finiva. Il Papa una volta veniva interpellato come ultima istanza».

E al pianterreno, come va?

«Secondo me la sfida più grande che abbiamo all’interno della società, ma poi anche all’interno della Chiesa: tanto io e sempre meno noi. E talvolta perfino questo io si vende come noi. E lo vediamo in tante discussioni. Mi sono incontrato anche nel periodo della pandemia con i no-vax, mi ha fatto impressione; non adesso per criticare le persone, ma gli argomenti, l’atteggiamento di fondo, ciascuno rimane nel proprio recinto. E non si sposta. Non si dialoga. “Noi siamo stati offesi, noi non siamo considerati”. Capisco bene, è stato difficile per tutti, ma posso partire anche dal presupposto: anche coloro che hanno fatto le regole non sono perfetti e possono essere anche criticati, ma dovevano proporre qualcosa... Anche con i politici è così. E tutte queste cose anche all’interno della Chiesa incidono, secondo me. Abbiamo tanti cantieri aperti e io da vescovo talvolta mi dico: io non vorrei rifiutare il dialogo a nessuno, è l’unico modo che ho. Almeno dialogare, almeno prendere sul serio l’altra posizione, almeno interessarsi per l’altra posizione. Un’immagine: da vescovo spesso ho l’impressione di stare sempre tra le sedie, nel senso che sento le cose da più punti di vista, mi trovo in mezzo. Alla fin fine, dobbiamo essere onesti: il ministero ecclesiale in sé, ma poi anche il ministero del Papa a livello universale, poi a livello più basso, locale, quello del vescovo, è favorire l’unità. L’unità che non significa unicità, ma unità nelle differenze. È diventato difficile. Anche solo in questi 13 anni c’è stato un cambiamento. Almeno questa è la mia sensazione».

Una crisi che riguarda pure le associazioni, i partiti...

«Abbiamo partiti con un deputato, mi fa impressione. Una volta, anche pensando alla nostra terra, c’era il blocco unico. Per esempio, anche da bambino, che cosa ho sentito? “Dobbiamo essere uniti per avere più peso anche verso Roma”. Funzionava così».

Qual è oggi il suo ruolo?

«Alla fin fine il vescovo, e non lo dico per una falsa umiltà, non è la persona più competente, ma è un simbolo. Talvolta penso, spero almeno, che funzioni questo simbolo, anche se pensiamo alla nostra terra, no? Anche per esempio dal punto di vista politico, dico sempre: ai tempi di Gargitter è stato più difficile di adesso, perché è stato sempre criticato come si muoveva, sempre. Però speriamo che tenga il simbolo, il simbolo che valorizza i singoli, i pensieri, che non chiude un discorso, che non esclude. Per esempio, anche di questo sono convinto: per la convivenza all'interno della nostra piccola società altoatesina non è da sottovalutare che alla fin fine tedeschi e italiani si siano dichiarati cattolici. Nonostante tutto, si sono trovati su certi valori. Anche questo adesso è cambiato notevolmente, ma in tutto ciò il vescovo, anche il vescovo nei tempi politici più tesi, sì, poteva e mi auguro possa ancora svolgere questo servizio, che ritengo importante».

Quali sono i cantieri aperti?

«Forse il cantiere più grande è la trasmissione della fede alle nuove generazioni. Talvolta i nostri bimbi vengono a scuola, non sanno un padre nostro, non conoscono il segno della croce, non conoscono più questo mondo. Una semplice preghiera, la domenica. Tutti questi pilastri, chiamiamoli pilastri».

Questo vale anche nelle valli, dove la comunità sudtirolese di lingua tedesca è maggioranza?

«Talvolta ho perfino l'impressione che le parrocchie in città siano più consolidate. Perché hanno fatto un certo cammino, forse anche un certo processo; adesso nelle valli abbiamo talvolta l’impressione che le tradizioni... Sono una cosa preziosa, ma se manca il contenuto... La trasmissione della fede da una generazione all'altra, in questo facciamo fatica. Perché dobbiamo essere onesti: la fede alla fin fine va trasmessa all'interno delle nostre famiglie, delle nostre case. Per non parlare del ruolo delle donne. Tanti di noi hanno imparato la fede dalla mamma o dalla nonna. Certo anche dal papà, ma le donne hanno sempre avuto proprio un ruolo molto importante all'interno della trasmissione della fede».

Di qui la questione vocazioni.

«Siamo malmessi, dobbiamo essere molto onesti. Certo veniamo da un contesto... Eravamo fertilissimi: tanti sacerdoti, tanti religiosi, tantissime religiose, tanti missionari che sono partiti soprattutto dall’Alto Alige e dal Trentino. Facciamo una fatica enorme. Ha a che fare naturalmente con questo: se non conosci più la fede, non puoi farti sacerdote. Questa diventa una vera sfida, anche per le comunità stesse».

Poi ci sono gli abusi. La diocesi è da tempo in prima linea nel parlarne e non solo. C’è quasi il rischio che si dica: a Bolzano tanti casi, ma è solo perché altrove se ne parla poco niente...

«Qui dobbiamo essere chiari. Mi fa sempre impressione: quando sono stato seminarista o anche da giovani sacerdoti non ne abbiamo parlato. A queste cose nessuno ci ha preparato. Ce ne accorgiamo sempre di più: è una ferita all'interno della nostra società, perché tutti lo dicono, adesso. Se io lo dico allora naturalmente possono criticarmi, adesso parla degli altri e non del proprio recinto, ma più del 90% di questi casi li abbiamo all'interno delle famiglie, all'interno della parentela, all'interno delle relazioni più intime. Qui secondo me dobbiamo essere chiari e dobbiamo renderci conto di questa ferita. Non c'è ancora piena consapevolezza. Talvolta ho l'impressione che gli unici che se ne occupano siamo noi, costretti o no, ma siamo gli unici. Così però non funziona».

All’inizio vi guardavano un po’ in tralice...

«Le cose sono cambiate, per esempio adesso in tutte le diocesi italiane abbiamo gli sportelli incaricati. Anche in Italia, per non parlare dell'Austria, della Germania, lì c’è una sensibilità, sì, forse differente, e dobbiamo prenderne atto. Poi alla fine anche i Papi sono costretti a occuparsi di questa ferita e di prenderne atto».

Un altro cantiere, nella Chiesa, è il ruolo della donna.

«Dobbiamo essere onesti: il ruolo della donna è molto molto discusso in tutte le direzioni. Talvolta anche in modo ideologico. È diventato un cantiere molto sentito. Ma si può discutere di tutto, all’interno della Chiesa».

Anche del matrimonio dei sacerdoti?

«Non c’è chiusura verso le discussioni, nemmeno sul celibato. Ma io a volte mi dico: gli unici nella nostra società che vogliono ancora sposarsi sono i preti cattolici? È diventato tutto un po’ strano, perché gran parte della nostra popolazione ha la possibilità di sposarsi e non si sposano...»

Come giudica l’Alto Adige, una società ricca che però forse non è neanche più così ricca?

«Mi preoccupa molto la questione degli alloggi. Questo fenomeno secondo me è aumentato, anche pensando all’anno scorso: ho incontrato diverse persone che lavorano e che non hanno una casa. Terribile, secondo me è terribile. E diventa un problema molto serio dal punto di vista sociale. Non funziona così. Non puoi lavorare e la sera non sai dove andare a dormire. Questo è un altro cantiere».

La Chiesa vuole intervenire concretamente?

«Sì, è diventato proprio un cantiere. Confrontandomi con la Caritas spesso affrontiamo questo problema. Quando si parla di povertà, si pensa soprattutto agli immigrati, ma sempre più famiglie altoatesine non ce la fanno, non arrivano alla fine del mese. Certo in un contesto dove tanti di noi si possono permettere molto, anche dal punto di vista economico, ma è un problema, direi, e anche molto serio».

Dall’altra parte non ci accontentiamo più, il tasso di suicidi in Alto Adige è molto elevato.

«C’è di mezzo la questione della gratitudine. Quando manca la misura non ci accontentiamo più di niente. Poi anche questa corsa: sempre di più, sempre avanti. A volte mi chiedo: ma dove arriveremo? Pensando adesso anche a certe fasce all'interno della nostra società, al turismo. Ci lamentiamo, ma cosa vogliamo ancora? Ho sentito una volta, non so se sia vero: all’interno dei campi di concentramento non avevano il problema del suicidio, c’era la voglia di vivere, di sopravvivere, di farcela, anche se la mia dignità viene calpestata ogni giorno».













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