L’abbraccio di Cristo Re a padre Refatti

Il bolzanino, 38 anni, ordinato presbitero dal vescovo di Smirne nella chiesa dei frati domenicani. Andrà in missione in Turchia


di Antonella Mattioli


BOLZANO. «Quando me lo hanno chiesto, ho detto subito di sì. Perché mi è sempre piaciuto andare alla scoperta di altri Paesi, altre culture, altre religioni: serve a meditare sulla propria fede. Del resto, sono nato e cresciuto a Bolzano, dove convivono due gruppi etnici, forse questo spiega molto cose». Fra’ Luca Refatti, l’altra sera nella chiesa di Cristo Re gremita di parenti, amici e fedeli, è stato ordinato presbitero dal vescovo di Smirne Lorenzo Piretto: a metà agosto partirà per la missione che i padri Domenicani hanno in Turchia. Destinazione: Istanbul.

Trentotto anni, dopo il diploma al liceo Carducci, ha studiato Scienze politiche internazionali all'Università di Bologna. Quindi la laurea, e la decisione di girare il mondo per stare vicino agli ultimi: dai poveri dell'Africa agli emarginati della società occidentale. Un filo rosso che lo ha portato a fare l’educatore in una struttura per disabili a Londra e a lavorare nel centro di assistenza per tossicodipendenti Binario 7 di via Garibaldi a Bolzano.

Parla bene l’inglese e da tre anni sta studiando l’arabo.

Quando ha deciso di intraprendere una vita “contro corrente”?

«Avevo 28 anni e stavo lavorando in Inghilterra, quando dissi a me stesso che sarei entrato nell'Ordine dei Predicatori. In quel periodo mi stavo interrogando su cosa volessi fare della mia vita e l'idea della consacrazione religiosa stava diventando un chiodo fisso, anche se non sapevo decidermi. Poi leggendo un salmo, cosa che facevo regolarmente andando al lavoro in bus, sono incappato in questo versetto: «Nella giustizia, Signore, voglio contemplare il tuo volto». È stata come una folgorazione. Era quello che volevo fare e da quel momento non ho più avuto dubbi».

La sua famiglia come ha preso la decisione?

«All’inizio è stato un po’ uno shock, ma è durato poco. Hanno capito la mia scelta. Anche perché mia madre è insegnante di catechismo».

Lei va in missione in Turchia, ma la comunità cattolica in quel Paese che dimensioni ha?

«Minime. La stragrande maggioranza sono musulmani».

Vista la cronica carenza di sacerdoti di cui soffre l’Italia, non sarebbe meglio se lei rimanesse qui?

«C’è bisogno anche lì, visto che la nostra presenza nella missione si è ridotta notevolmente: ci sono solo tre frati, io sarò il quarto. E comunque c’è molto interesse anche da parte musulmana per la nostra religione. In ogni caso c’è una leggera ripresa delle vocazioni».

Per quanto riguarda i frati Domenicani?

«Quando ho iniziato io eravamo in quattro, oggi sono in dodici. Non sarà molto, ma è già qualcosa».

Cosa le è rimasto dell’esperienza vissuta nella baraccopoli in Kenia?

«Ero partito dopo la laurea come «casco bianco» per la Comunità Papa Giovanni XXIII.Dopo le prime settimane sono andato a vivere in una struttura di baracche di lamiera che ospitava ragazzi di strada. Intervistavo le famiglie sostenute dalle adozioni a distanza, sbrigavo un po' di burocrazia per la missione, collaboravo con un gruppo di giovani della baraccopoli che aiutava i bambini, davo una mano agli educatori dei ragazzi di strada e, soprattutto, parlavo con la gente. Quello che mi è rimasto sono soprattutto la speranza e il coraggio delle persone che ho incontrato, delle donne in particolare. Ricordo Tabitha, che da sola e senza lavoro accudiva dieci bambini: metà suoi, metà di parenti morti di Aids. Mi sono rimaste anche la gioia e la voglia di vivere contagiose dei bambini. Da allora relativizzo molto i miei problemi quotidiani. E poi ho imparato una cosa importante».

Quale?

«Che il benessere non fa la felicità e che la povertà non è solo quella materiale».

©RIPRODUZIONE RISERVATA













Altre notizie

Attualità